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Sole e mare contro il Coronavirus? Il rapporto di MedRXiv

Sole e mare contro il Coronavirus? Il rapporto di MedRXiv

In riva al mare, dove l’acqua riflette i raggi solari, il Sars-CoV-2 avrebbe vita brevissima. In questo contesto, basterebbero soli 20 secondi per eliminare il virus responsabile della pandemia.
Merito dei raggi UV-A, UV-B e della luce viola, ai quali sarebbe sufficiente circa un minuto per uccidere il coronavirus.
A rilevarlo è il rapporto di lavoro pubblicato sul server MedRXiv, al quale manca solo l’ultimo imprimatur scientifico per la pubblicazione ufficiale, relativo agli studi di un team di ricerca italiano.

I raggi solari contro il Covid

Il team guidato da Mario Clerici, professore di Immunologia all’Università di Milano, ha eseguito un’analisi approfondita dell’effetto sul virus da parte di luci solari di diverse lunghezze d’onda. Già si sapeva, sulla base di un precedente studio, che il Sars-CoV-2 viene rapidamente eliminato dai raggi UV-C. Non a caso questi vengono utilizzati per la sterilizzazione degli ambienti vuoti o per realizzare macchinette per eliminare il virus, ad esempio, dalle banconote. Si tratta però di raggi, oltretutto cancerogeni, che non raggiungono la superficie terrestre in quanto filtrati dall’atmosfera.

Anche i raggi violetti e ultravioletti, pur meno potenti, come hanno riscontrato gli studiosi, sarebbero comunque efficaci per l’inattivazione virale del coronavirus.
Gli esperimenti effettuati hanno dato risultati positivi, sottolineando in particolare che le lunghezze d’onda UV sono in grado di arrivare alla completa eliminazione del virus in concentrazioni pari a quelle contenute nell’espettorato dei pazienti-Covid. La spiccata sensibilità dei virus a Rna agli ultravioletti spiegherebbe così la stagionalità della pandemia.

Le conseguenze della scoperta

L’effetto dei raggi UV-A e UV-B è moltiplicato dal riverbero marino, riducendo i tempi di disattivazione tra il 25% e il 30%. «La diffusione del Covid in spiaggia – spiega Clerici – è molto meno probabile che in uno stato chiuso. Invito comunque tutti a non diminuire l’attenzione e a mantenere le distanze».
Dei benefici dell’estate, però, secondo i ricercatori ne godremo anche nel prossimo autunno. «Siamo in molti a ritenere che dall’effetto combinato dei raggi solari, della vaccinazione e del rispetto delle cautele – riprende il professore – possa derivare una grandissima riduzione di casi. Dopo la bella stagione, un aumento di casi probabilmente ci sarà. Ma la speranza, le prospettive e i dati ci dicono che non dovrebbe esserci la temuta terza ondata».

Mario Clerici, professore di Immunologia Università di Milano

Del resto, già l’andamento della pandemia nello scorso anno fa ben sperare. «Il virus – conclude Clerici – arriva all’autunno dopo mesi di “bastonate”, che lo rendono molto più debole. Anche nel 2020, i casi registrati tra settembre e novembre sono stati clinicamente meno gravi, registrando invece una crescita a gennaio. Si può dunque dire, sintetizzando, che la coda dell’estate si proietterà sull’autunno».

Anticorpi: una protezione a vita?

Un’altra notizia positiva, sul fronte della lotta al Covid, arriva dallo studio pubblicato da Nature e coordinato dall’immunologo della University of Washington School of Medicine Ali Ellebedy. Basta infatti un’infezione contratta in forma lieve, conclude lo studio, per indurre “una risposta immunitaria umorale antigene-specifica e di lunga durata negli esseri umani”. Una volta guariti, cioè, resterebbero nell’organismo cellule quiescenti in grado di riconoscere nel tempo la proteina spike del virus.

Tecnicamente, si parla di “plasmacellule del midollo osseo a lunga vita”. Si tratta di cellule immunitarie diverse, rispetto agli anticorpi sierici, che forniscono la risposta diretta al virus. Questi diminuiscono rapidamente nei primi 4 mesi dopo l’infezione e poi più gradualmente nei successivi 7. Le plasmacellule, riscontrate in 15 dei 18 pazienti ai quali è stato prelevato il midollo osseo, vengono attivate dal sistema immunitario per produrre ulteriori anticorpi qualora quelli presenti nell’organismo non siano sufficienti.

La variante indiana spaventa

A preoccupare, intanto, è adesso la cosiddetta variante indiana o “delta”. Nel Regno Unito, dove più della metà dei maggiorenni è già stata vaccinata, si è riscontrata negli ultimi giorni una decisa crescita dei nuovi contagi. Il ministro della Salute, Matt Hancock, stima nel 40% la maggior capacità di contagio della variante indiana.

Al momento, sembra comunque che non ci sia un correlato aumento né dei ricoveri, né dei decessi, anche se i dati dovranno essere ancora monitorati per stabilire l’eventuale maggior pericolosità della mutazione “delta”. Una ricerca inglese, pubblicata dalla rivista The Lancet, sembrerebbe però indicare anche una riduzione fino a 5 volte dell’efficacia del vaccino Pfizer sulla variante indiana.

Alberto Minazzi

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