Durano 8 mesi. Gli anticorpi sviluppati per far fronte al Covid-19, sono una protezione naturale che, indipendentemente dall’età del paziente o dalla presenza di comorbilità, resta attiva per almeno 32 settimane, suggerendo che anche gli anticorpi indotti dalla vaccinazione “saranno probabilmente di lunga durata”.
A evidenziarlo è uno studio condotto, tra marzo e novembre 2020, dall’Ospedale San Raffaele di Milano, in collaborazione con l’Iss (Istituto Superiore della Sanità), i cui risultati sono stati ora pubblicati sulla rivista Nature Communications.
La ricerca rileva anche che se il nostro organismo, entro 2 settimane dall’insorgenza dei sintomi, sviluppa anticorpi specifici contro il Covid-19 (nAb), la possibilità di incorrere in una forma grave della malattia si riduce significativamente.
La produzione degli anticorpi che neutralizzano gli spike, inoltre, supporta l’introduzione precoce di una terapia con anticorpi monoclonali.
Il campione dello studio
Lo studio, mirato alla valutazione dell’evoluzione delle risposte anticorpali al Sars-CoV-2, ha monitorato fino a 8 mesi 162 pazienti positivi sintomatici ricoverati al San Raffaele, rappresentativi del totale dei ricoveri.
Il campione seguito con il follow-up era composto da pazienti prevalentemente bianchi europei (89,5%), maschi (66,7%) e con un’età media di 63 anni. Nel 32,4% dei casi i pazienti erano obesi e il 57,4% presentava comorbilità: per il 44,4% del totale si trattava di ipertensione e per il 24,7% di diabete.
Dei 162 pazienti, 134 sono stati ricoverati dopo la visita ospedaliera d’emergenza richiesta in media a 9 giorni dall’insorgenza dei sintomi, tra i quali febbre, affaticamento e difficoltà respiratorie, spesso associate a dispnea, comunemente conosciuta anche come “fame d’aria”. Il ricovero è durato in media 14 giorni, con 26 pazienti che hanno dovuto ricorrere alla terapia intensiva e 29 deceduti. La negativizzazione al tampone molecolare è avvenuta in media dopo 40 giorni.
L’avanzata degli anticorpi
Sebbene questo non si verifichi nella totalità dei pazienti, gli studiosi hanno rilevato che le risposte anticorpali al picco di Sars-CoV-2 compaiono subito dopo l’insorgenza dei sintomi.
Tra i 44 campionamenti effettuati entro la prima settimana dalla comparsa dei sintomi, gli anticorpi neutralizzanti sono stati riscontrati nel 43,2% dei pazienti, con la percentuale salita al 78,9% nei campioni prelevati in ospedale entro la seconda settimana. Complessivamente, il 67,3% (101 su 150) dei pazienti ha sviluppato gli anticorpi contro il Covid entro 2 settimane dalla presentazione dei sintomi.
Alla prima visita ambulatoriale, effettuata in media dopo 42 giorni dall’insorgenza dei sintomi, nel 71,6% degli 87 pazienti campionati la risposta anticorpale era ancora in aumento.
In tutti e 77 i pazienti testati, invece, era cominciata la diminuzione alla seconda visita, effettuata dopo 99 giorni di media. In soli 3 casi si è riscontrata la perdita completa degli anticorpi specifici già alla seconda visita. Pur essendo continuata la diminuzione, nessun altro dei 46 pazienti che hanno partecipato a ulteriori visite ad almeno 6 mesi ha perso però la risposta. Così come è avvenuto, almeno fino alla seconda o terza visita ambulatoriale (effettuata tra 76 e 218 giorni), per i 12 pazienti non ospedalizzati testati.
La mancata risposta anticorpale
Lo sviluppo degli anticorpi, sottolinea lo studio, non ha nessun impatto sulla durata del ricovero, ma ha una significativa incidenza nell’evoluzione della malattia in forma critica.
“La mancanza di una risposta nAb subito dopo l’infezione è un forte predittore di morte”, affermano i ricercatori.
La presenza di un livello basso o nullo di anticorpi neutralizzanti nelle prime settimane è stata rilevata in pazienti significativamente più anziani (in particolare uomini con età media di 74 anni) o con gravi comorbilità debilitanti, compresi cancro, malattie polmonari o renali croniche.
Questi, curiosamente, hanno spesso presentato un esordio della malattia con sintomi respiratori meno gravi, che non richiedevano il ricorso alla terapia intensiva. Una risposta nAb assente dopo l’insorgenza della malattia è risultata però il più forte correlato sia con la morte che con il controllo virale ritardato.
Anticorpi per il Covid e per altri coronavirus stagionali
Un aspetto particolare che è stato approfondito nello studio del San Raffaele è quello del rapporto tra i nAb contro il Covid e gli anticorpi contro gli altri beta coronavirus stagionali, come quello del raffreddore o dell’influenza.
La comunità scientifica si interroga infatti sull’eventualità che gli anticorpi specifici contro la Sars-CoV-2 giochino un ruolo positivo o negativo nei confronti degli altri anticorpi.
I risultati raccolti hanno evidenziato che chi ha sviluppato i nAb entro le prime 3 settimane aveva valori significamente più alti anche degli altri anticorpi, con una persistenza anche durante il follow-up.
Un temporaneo potenziamento della risposta anticorpale che, in ogni caso, non ha compromesso in generale la risposta immunitaria dell’organismo. Un’infezione influenzale preesistente o in corso non ha infatti determinato il rallentamento dello sviluppo di anticorpi per il Covid, né ha potenziato eventuali malattie critiche.
Reinfezione e varianti
Alla terza visita di follow-up, racconta lo studio, in 9 dei 42 pazienti è stato riscontrato un aumento importante, fino al 400%, del titolo di anticorpi neutralizzanti contro il Covid. I ricercatori sottolineano che non ci sono elementi sufficienti per dire che l’aumento sia legato a una nuova esposizione al virus, sebbene il rilevamento sia avvenuto durante la seconda ondata epidemica in Italia. Sia pure a livello di ipotesi, in ogni caso, si è avanzata la teoria che ci possa essere stata una reinfezione asintomatica o interrotta, suggerendo un “sistema immunitario adattivo reattivo con la capacità di controllare la malattia”.
Queste considerazioni hanno infine suggerito una riflessione sul tema delle varianti. “L’impatto delle mutazioni spike/RBD deve ancora essere definito”, premette lo studio pubblicato su Nature Communications. Vi è però una “prova parzialmente rassicurante”: le particelle virali pseudotipizzate utilizzate nel rapporto al posto del virus vivo per valutare la neutralizzazione virale si basavano sul picco di Wuhan. Mentre le epidemie italiane già presentavano un’importante variante. Questo, conclude lo studio, fa ben sperare sulla campagna di vaccinazione. “Tuttavia, se nuovi ceppi con nAb sfuggono alle mutazioni, un piano di intervento richiederebbe sequenze di spike aggiornate per la vaccinazione”.
Alberto Minazzi