Non è una vera e propria depressione, quanto piuttosto una mancanza di gioia e motivazioni, un senso di stagnazione e vuoto.
Pervade moltissime persone in ogni parte del mondo, tanto da aver allertato gli esperti, che all’emozione del 2021 hanno dato un nome: languishing.
La illustrano sul New York Times, lo psicologo dell’Università della Pennsylvania Adam Grant e il sociologo Corey Keyes.
“Languishing”, languire, è sicuramente una delle più comuni ripercussioni psicologiche legate alla pandemia.
Le conseguenze del nuovo mal di vivere
La mancanza di gioia non è fine a se stessa. Non fa vivere bene e può compromettere la capacità di concentrazione.
C’è poi il rischio dell’“indifferenza all’indifferenza” – rilevano gli esperti sentiti dal New York Times – derivante da una sorta di inconsapevolezza di base, superabile quando ci si rende conto di non essere gli unici a provare questo disagio.
La soluzione? Il suggerimento è quello di farsi completamente assorbire da ciò che ci appassiona: il cosiddetto “flow”, ovvero flusso.
Estate, vacanze e amici il vero modo per uscirne
Anche lo psicologo e sociologo Paolo Crepet invita a non sopravvalutare quella che è già stata definita l’“emozione 2021”.
“Bisognerebbe occuparsene in maniera più naturalistica – dice – Io ci andrei piano con psicofarmaci e ricorso agli specialisti. L’estate, le vacanze, il ritrovarsi tra amici sono tutte “cure” che faranno molto bene a chi si trova ad affrontare questa condizione”.
Languishing: eventi concatenati e mancanza di libertà
Il sociologo italiano prova invece a partire da più lontano, analizzando il fenomeno dalle sue radici. “Il laguishing – spiega Crepet – è una di quelle forme a metà strada, presentandosi quasi come una forma reattiva di medio periodo. Non si lega cioè a un evento specifico, ma a una serie di eventi concatenati. E, in questo caso, l’evento è più che altro uno stato: la mancanza di libertà”.
Lo psicologo ritiene dunque “un po’ difficile definire queste condizioni come delle vere e proprie “sindromi”: mi pare un po’ una forzatura, considerando quanto ampia sia la popolazione che ne viene colpita. Una sindrome è sicuramente quella di depressione post partum. O alcune forme adolescenziali, che colpiscono specificamente una certa fascia d’età ed è difficile che si ampli ad altre persone. In questo caso, al contrario, la si può riscontrare dappertutto”.
Sdrammatizzare e attendere: si può superare
Crepet invita dunque alla cautela. “Chiunque si trovi a ricoprire un ruolo come il mio – auspica – farebbe bene a cercare di sdrammatizzare. Non sono molto d’accordo con quella sorta di psicologicizzazione globale presentata in Francia e rilanciata in Italia. Soprattutto nei confronti dei ragazzi che, come si dice in questi casi, rischiano di essere “cornuti e mazziati”: prima li abbiamo messi in una situazione che ha portato a produrre alcune reazioni e poi facciamo loro “beccare” lo psicologo…”.
“Possiamo solo – continua Crepet – attendere e vedere se, a ottobre-novembre, si dovesse ripresentare in massa una certa reattività. Ma non credo che succederà. Faccio un esempio, che mi è capitato in passato. Più d’uno mi ha chiamato, di ritorno dalle vacanze, parlandomi di una situazione di stress. Ma, puntualmente, questo dopo 15 giorni non c’era più. Certo dispiace a tutti finire le ferie, anche se questo non deve necessariamente richiamare chissà quale capitolo dell’indice internazionale delle malattie mentali”.
Le conseguenze psicologiche della pandemia
Non si può, però, che essere d’accordo sul fatto che la prolungata situazione legata al Covid-19 abbia prodotto delle conseguenze a livello psicologico. Anche se “non è che la pandemia – sottolinea Crepet – abbia avuto effetti identici ripetuti nella popolazione. Anche le forme reattive nei confronti della didattica a distanza non sono state le stesse in tutti gli studenti: non è che in dad tutti sono diventati depressi”.
C’è però un tratto comune, per lo psicologo: la “mancanza di relazioni più vaste da un punto di vista relazionale e affettivo”. “Si può parlare – conclude – di effetti psicologici ad esempio anche per lo smartworking. Questa pandemia ci ha fatto capire che la casa è una cosa bella ma non basta. Così come la stessa famiglia. Perché, anche ammesso e non concesso che siano peggiorate le persone che la compongono, non è questo che incide. Sembrerebbe strano il contrario se vivere in 50 metri quadri tutto l’anno, lavoro compreso, non avesse conseguenze”.
Alberto Minazzi