Arrivano dalla ricerca italiana nuovi risultati per rendere sempre più efficaci e personalizzate le terapie contro i tumori
Un semplice esame del sangue per capire, e tarare a misura di ogni paziente operato, la quantità di chemioterapia necessaria per contrastare la ricomparsa di un tumore.
Una combinazione di farmaci per evitare la cosiddetta immunoevasione delle cellule cancerogene, cioè la loro capacità di “nascondersi” ai controlli clinici. Un nuovo bersaglio molecolare per superare la resistenza ai farmaci nei pazienti oncologici.
Grazie alla ricerca italiana e al lavoro multidisciplinare, la lotta ai tumori, nello specifico quelli del colon-retto, si arricchisce di queste 3 nuove opportunità. “La gioia più grande – commenta Alberto Bardelli, il professore dell’Università di Torino e dell’Istituto di Candiolo Fpo-Irccs che ha coordinato i tre lavori – è quella di poter proporre i frutti della ricerca direttamente ai pazienti”.
Il progetto Pegasus: nuove tecnologie contro il cancro
Il progetto in fase più avanzata, potendo già parlare di una pratica clinica, è Pegasus, promosso dall’Ifom di Milano sostenuto dalla Fondazione Airc.
Si basa su una nuova tecnologia, la biopsia liquida, il cui uso è iniziato in Italia una decina di anni fa e si rende ora concretamente utile ai pazienti. Attraverso un prelievo di sangue e la successiva purificazione del dna è possibile analizzare e quantificare la presenza di alcune spie molecolari nel corpo del paziente dopo un intervento chirurgico di rimozione di un cancro al colon-retto.
“Pur togliendo l’intera massa tumorale – spiega Bardelli – non c’è mai la certezza che non siano rimaste nell’organismo delle micro metastasi, che non sono rilevabili con lastre, tac o risonanza magnetica. In circa il 40 per cento dei casi, questa “malattia invisibile” continua a rimanere nelle cellule della persona. E rende necessario un trattamento invasivo come la chemioterapia. Inoltre, per capire cosa sta succedendo a un paziente, finora si rendeva necessario un esame altrettanto invasivo come la biopsia tissutale”.
La biopsia liquida consente di personalizzare la cura
Grazie ai progressi ottenuti con la genetica, il prelievo di tessuto può invece essere sostituito da un molto meno impattante prelievo di sangue.
Ed è per di più in grado di dare ai medici indicazioni molto più approfondite sulla cura da applicare.
“Il test – riprende il ricercatore – ci dice sia se la malattia è ancora presente nel paziente, sia il livello di aggressività della chemioterapia necessario per contrastare il tumore ed evitare che questo si ripresenti. E questo significa poter personalizzare la cura caso per caso”.
La presenza o meno del dna tumorale viene rilevata per la prima volta dopo 3-4 settimane dall’operazione e viene poi ripetuta ogni 6 settimane, continuando il monitoraggio nel tempo e permettendo di indirizzarsi verso terapie sempre più di precisione. Si tratta del primo studio clinico in Italia, e tra i primi in Europa e al Mondo, in cui si prende in considerazione l’utilizzo della biopsia liquida a questi fini. “Oggi – sottolinea Bardelli – la biopsia liquida non è più un’ipotesi, ma è già a disposizione dei pazienti”.
Il trial clinico internazionale
Dopo l’annuncio ufficiale, il test potrà dunque essere eseguito fin da subito. Nel frattempo, nei prossimi 36 mesi si approfondirà il trial clinico internazionale coinvolgendo circa 140 pazienti tra Italia e Spagna, in 8 centri clinici, molti dei quali situati nella parte settentrionale del nostro Paese. Come avvenuto nelle fasi precedenti, anche in questa sarà coinvolto un team multidisciplinare, per arrivare alla determinazione delle migliori terapie, caso per caso. E i pazienti saranno seguiti per tutta la durata del loro percorso clinico terapeutico.
“Credo – ipotizza il professore – che entro 2 o 3 anni potremo offrire sistematicamente questo tipo di approccio. Intanto, i risultati ottenuti confermano che il futuro è sempre più legato a un’assenza di divisioni tra ricerca e pratica clinica. Alcuni anni fa il cancro era un male oscuro. Oggi sappiamo che dipende dalle alterazioni del genoma. Mutazioni nei 46 “mattoncini” che compongono il nostro dna che vanno studiate e approfondite sotto tutti i punti di vista per ottenere i migliori risultati”.
Il cancro al colon-retto
La neoplasia presa in considerazione dal progetto Pegasus, il cancro al colon-retto, è la seconda per frequenza nel nostro Paese nella donna e la terza nell’uomo. Ogni anno, in Italia, vengono riscontrati circa 34 mila nuovi tumori di questo tipo. In Europa, il totale annuo è di circa 325 mila nuovi casi. Le più recenti stime dell’Associazione italiana registri tumori, risalenti al 2019, indicano una maggior incidenza nei maschi e, a livello territoriale, i tassi maggiori si concentrano nelle regioni del centro Italia.
In 8 casi su 10, il primo trattamento cui viene sottoposto chi è colpito da cancro al colon-retto è la chirurgia. A questa segue il trattamento con chemioterapia adiuvante, che però statisticamente non sarebbe stato necessario in circa metà dei pazienti.
Lo studio sull’immunoevasione
Trattandosi di un cancro piuttosto diffuso, sono così molteplici le ricerche che si dedicano al tumore del colon-retto. Due di queste, coordinate sempre dal professor Bardelli, sono da poco state pubblicate dalla rivista Cancer Discovery. “Si tratta in entrambi i casi – precisa Bardelli – ancora di studi preliminari, con un impatto al momento solo futuribile. Ma penso che in un paio d’anni si potranno ottenere risultati concreti sul piano del cambio di pratiche cliniche”.
Nel primo studio, che ha coinvolto insieme ai ricercatori italiani un gruppo di studiosi di New York, è stata identificata una combinazione di farmaci sperimentali in grado di superare l’immunoevasione, potendo così estendere l’efficacia dell’immunoterapia a più pazienti. “Il tumore – spiega il professore – è in grado di nascondere l’antigene che porta il sistema immunitario a identificarlo e a combatterlo. I modelli preclinici che abbiamo sviluppato in avatar che non rispondono ai farmaci immunoterapici hanno mostrato che è possibile superare l’immunoevasione, facendo regredire il tumore”.
Lo studio sulla elicasi per fermare il cancro
Il secondo studio è invece frutto della collaborazione con il Wellcome Sanger Institute di Cambridge e l’Istituto tumori di Amsterdam.
I ricercatori sono riusciti a identificare un nuovo bersaglio molecolare, l’enzima Werner, consentendo al farmaco di bloccare la moltiplicazione delle cellule tumorali. Tecnicamente, il Werner è una elicasi, ovvero un’enzima specifico di replicazione del dna utilizzato dalle cellule tumorali.
“I moderni farmaci “smart” al centro di nuove terapie farmacologiche a bersaglio molecolare personalizzate – spiega Bardelli – sono in grado di funzionare per un tempo limitato. Dopo l’iniziale risposta, si genera infatti una resistenza, che consente al tumore di riprendere successivamente a crescere. Intervenendo sul gene della specifica elicasi, si riesce invece a bloccare l’insorgere di questa resistenza”. Non si tratta dunque di un nuovo farmaco, ma di una nuova strategia su cui stanno già puntando alcuni farmaci in fase di sviluppo, che potrebbero risultare utili anche per altre forme di cancro, come quelli a stomaco o endometrio.
Alberto Minazzi