Cos’hanno in comune cavolo, senape, ravanello e rucola?
Appartengono alla famiglia delle crucifere. E cosa c’entrano le crucifere con il Covid-19?
Da queste piante si può trarre l’indolo-3 carbinolo, un composto naturale con potenti effetti antivirali che sarebbe in grado di inibire l’attività di alcuni enzimi determinanti per la diffusione del Sars-CoV-2 nell’organismo.
Lo evidenzia uno studio internazionale, coordinato dai genetisti Giuseppe Novelli, dell’Università di Tor Vergata di Roma e Pier Paolo Pandolfi, appena pubblicato dalla rivista Cell Death & Desease.
Il ruolo delle ligasi
Tra le realtà che hanno collaborato allo studio c’è anche l’ospedale Bambino Gesù di Roma. In particolare, il laboratorio di genetica medica, che ha messo a disposizione le proprie strumentazioni d’avanguardia per sequenziare rapidamente il genoma dei 130 persone italiane, ricoverate con una forma particolarmente seria di Covid-19, arruolati per la ricerca. «Abbiamo puntato subito – spiega Antonio Novelli, responsabile del laboratorio – sullo studio di 9 tra i circa 25.000 geni conosciuti, ovvero quelli della famiglia della ligasi HECT-E3, di cui si era evidenziata l’interazione con il Sars-Cov-2». E si sono riscontrati livelli elevati di questi enzimi nei polmoni e negli altri tessuti infettati dei malati.
Un “pass” per il virus
Come già notato in studi precedenti, le ligasi sono enzimi che, in sostanza, aprono la strada alla circolazione del virus all’interno dell’organismo. Si è provato così a vedere se, in questi pazienti più critici, fossero presenti mutazioni genetiche in grado di dare un “pass” ancora più forte al coronavirus. «Sequenziando il genoma di questi pazienti – riprende Novelli – abbiamo in effetti trovato varianti molto rare non presenti nel resto della popolazione». Del resto, di una di queste ligasi, chiamata WWP1, il professor Pandolfi aveva già evidenziato in passato l’interazione nel cancro e, lo scorso anno, un’implicazione anche nell’autismo.
L’attività degli enzimi bloccata da un farmaco presente in natura
L’analisi di laboratorio è stata dunque finalizzata alla dimostrazione che l’attività di questi enzimi potesse essere bloccata con un farmaco presente in natura, come l’I3C.
In vitro, l’efficacia di questo composto per bloccare i meccanismi molecolari che favoriscono l’interazione tra il virus e l’organismo è stata dimostrata .
«Questo – sottolinea il responsabile del laboratorio del Bambino Gesù – apre la strada anche ad altri farmaci, che potranno essere sviluppati più avanti, che agiscano su questa interazione». Anche perché l’azione dell’indolo-3 carbinolo non si lega alla proteina-spike, ma alla stessa propagazione genetica del virus, cui viene impedito di uscire dalla cellula per diffondersi e moltiplicarsi negli altri tessuti del corpo.
L’iter verso l’utilizzo
L’I3C è un farmaco già utilizzato per altri trattamenti e risulta ben tollerato dall’organismo umano. Tant’è che, una volta dimostrata l’efficacia sui pazienti malati di Covid-19, l’approvazione per l’utilizzo specifico potrebbe essere rapida. «Adesso – spiega il coordinatore dello studio, Giuseppe Novelli – dobbiamo testare il farmaco in studi clinici con pazienti Covid-19 per valutare rigorosamente se può prevenire la manifestazione di sintomi gravi e potenzialmente fatali». «Sarà anche importante valutare – aggiunge Pier Paolo Pandolfi – se I3C possa anche ridurre le gravissime complicazioni cliniche che molti pazienti sperimentano dopo aver superato la fase acuta dell’infezione».
Un consorzio internazionale contro il Covid
Nella lotta contro il coronavirus, Università Tor Vergata e ospedale Bambino Gesù rientrano nel consorzio Covid Human Genetic Effort della Rockefeller University, che coinvolge tutti i centri mondiali di genetica per la raccolta di dati. «La comparazione dei dati emersi dallo studio con quelli internazionali – sottolinea Antonio Novelli – conferma quanto abbiamo evidenziato». È comunque solo l’ultimo tra i risultati che è stato possibile raggiungere grazie alla collaborazione internazionale. Già a settembre, ad esempio, è stato dimostrato che un difetto dell’interferone porta a uno sviluppo molto più grave della malattia. Adesso si stanno studiando i pazienti cardiopatici affetti da Covid-19 e si sta provando anche a sequenziare il genoma degli asintomatici. Perché le mutazioni genetiche non hanno solo effetti negativi, ma, in alcuni casi, possono anche determinare una maggior protezione.
Alberto Minazzi