La Birmania, chiamata anche Myanmar, ancora oggi rappresenta per il viaggiatore un tuffo nel passato, un piccolo Paese dove le tradizioni, anche quelle legate al semplice vivere quotidiano, sono rimaste pressocché intatte.
Fuori dalle grandi città sarà ben difficile incontrare un uomo che indossi i pantaloni.
E’ tutt’ora infatti in voga, anche tra chi lavora negli uffici pubblici, il longyi, la multicolore gonna pareo che la popolazione maschile è solita usare.
Molte donne, soprattutto nelle campagne e nei villaggi, hanno il volto ricoperto da un velo di pasta gialla, il thanaka, crema di bellezza ricavata dalla corteccia d’albero di “limonia acidissima” e calzano ai piedi, come d’altronde molti uomini, delle semplici ciabatte infradito.
Un’altra “tradizione”, che fin dal nostro arrivo in aeroporto nell’ex capitale Yangun abbiamo modo di appurare, è invece molto antiestetica: gli uomini masticano in continuazione un impasto di calce spenta, spezie e noce di betel, i cui pigmenti colorano la saliva e i denti di rosso scuro.
In Birmania i computer sono ancora oggi un optional, anche negli uffici. Anzi, ora che il Paese è tornato sotto la cappa asfissiante dei militari, l’accesso alla rete è per lo più interdetto, come accadeva fino a dieci anni fa quando Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, era ai domiciliari.
La leader birmana, figlia dell’eroe nazionale Aung San che nel 1947 portò la Birmania all’indipendenza dall’Inghilterra, si trova oggi nuovamente agli arresti, in seguito al golpe del 1 febbraio scorso.
Nonostante le restrizioni, anzi forse anche grazie a queste, i birmani sono riusciti a mantenere nel tempo oltre alle proprie tradizioni anche un innato e profondo senso religioso che in certi casi si mescola all’astrologia, all’animismo e alla venerazione dei Nat, gli spiriti buoni.
Templi e pagode
Sono centinaia i templi e le pagode (in queste ultime è solitamente custodita una reliquia del Budda), che abbelliscono città e villaggi.
A un visitatore straniero può far sorridere la fastosità, talora eccessiva di alcuni luoghi di culto. Tra lo scintillio dei mosaici di vetro, spiccano centinaia di lumini elettrici e luci psichedeliche che contornano grandi statue del Budda, solitamente raffigurato in due particolari posizioni: sdraiato, che rappresenta la morte fisica e al contempo il raggiungimento del massimo Nirvana, o seduto con la mano che tocca terra ad indicare il momento che precede l’illuminazione.
Io e Gianmarco restiamo quasi storditi dall’abbondanza di stucchi e ornamenti multicolori, a volte terribilmente kitch come nel caso della pagoda di Thanboddhay a Monywa, che fanno sembrare alcuni templi delle enormi torte nuziali, decorate di pan di zucchero. Entrando a piedi nudi, secondo la rigida regola buddista birmana, nel piazzale della maestosa pagoda di Shwedagon, ci colpisce comunque la splendente imponenza di quest’edificio interamente coperto di sottili lamine d’oro e attorniato da una vera e propria selva di templi minori.
Sono ben 5500 i diamanti (di cui uno di 76 carati) e oltre 2000 le altre pietre preziose che arricchiscono la “banderuola”, parte culminante della pagoda simbolo della città di Yangon.
All’ingresso dei luoghi di culto notiamo alcune gabbie contenenti decine di piccoli volatili.
Ai turisti viene detto che liberare un uccellino porta fortuna e amore.
In realtà, per un buddista credente, questa piccola buona azione rappresenta uno dei tanti modi per propiziarsi un destino migliore nella successiva reincarnazione e acquisire meriti per elevare il proprio karma.
In Laos, in occasione di un altro viaggio nel sud-est asiatico, anche io ho acquistato e liberato un uccellino. Non saprei affermare se ciò abbia giovato al mio personale karma. Di sicuro gli uccellini, finalmente liberi, sono tornati felicemente a volare nei cieli tropicali.
Lasciando l’ex capitale, decidiamo di proseguire il nostro itinerario noleggiando, a buon mercato, un taxi per tre settimane. L’autista ci conduce a Kyaik-hityo, la pagoda sulla roccia d’oro, un enorme masso ricoperto di foglie d’oro in equilibrio precario in cima ad un colle.
Dopo un breve percorso in camioncino proseguiamo l’ascesa a piedi, seguiti da portatori di lettiga a pagamento che, vedendomi “arrancare” sotto il sole cocente di mezzogiorno tentano, invano, di convincermi ad accomodarmi su un’invitante sdraio in legno. Resisto stoicamente.
Di certo più veloce, ma letteralmente da brivido, il ritorno a bordo di un camion già pieno di gente fino all’inverosimile, ma che sarebbe dovuto partire solo al completo.
Dopo un’attesa di 45 minuti decidiamo di pagare noi le poche quote mancanti, così il furgone può finalmente partire a tutta forza lungo tornanti simili a montagne russe.
Molto meno “hard” il trekking che il giorno dopo ci attende a Kalaw.
Risalendo dolci colline ricoperte di piantagioni di tè verde, raggiungiamo un villaggio di Paluang, una delle etnie più antiche della Birmania. Seguiti da una dozzina di vivacissimi bambini, visitiamo la scuola elementare e le tipiche case lunghe, nelle quali vivono in comunità fino a sette diverse famiglie.
Altrettanto suggestivo il lago Inle, nome che significa “quattro villaggi“.
Oggi se ne contano nella zona una trentina, tutti costruiti su palafitte.
Come in una Venezia d’altri tempi, la vita qui si svolge interamente sull’acqua, tra orti e mercati galleggianti, piccole manifatture di seta, ombrelli di carta dipinta ricavata dalla corteccia d’albero, lacche e sigari.
In equilibrio su una gamba sola (con l’altra manovrano il remo nell’acqua), i pescatori del lago Inle scivolano lungo i canali a bordo di piccole piroghe simili a gusci di noce, riempiendo di carpe e pesci gatto grandi ceste di bambù a forma di cono.
I gatti più famosi del lago Inle sono però quelli del monastero di Nga Phe Chaung, dove i monaci, da oltre 30 anni, per puro passatempo, addestrano schiere di mici a saltare attraverso piccoli cerchi.
Prima di raggiungere la grande città di Mandalay facciamo una breve sosta a Pindaya per visitare, sempre a piedi nudi, le famose grotte in cui sono custodite oltre 9000 statue di Budda di ogni dimensione, in gran parte ricoperte d’oro. Una targa posta sulla base di ciascuna statua riporta incisi i nomi dei devoti che, grazie alle proprie offerte in denaro, sono riusciti a far coprire di foglie d’oro una statua intera. Notiamo anche alcuni nomi italiani.
Lungo il tragitto per Mandalay incontriamo, con nostra grande sorpresa, un suggestivo corteo di carri trainati da buoi, cavalli e festosa gente in costume.
Il nostro autista ci spiega che si tratta della processione per lo Shin Pyu, l’ordinazione dei novizi.
I bambini birmani, vestiti come principini, rivivono le gesta del Budda e vanno a soggiornare, anche se solo per un breve periodo, in monastero.
Spogliati dei vestiti regali e rasati (i capelli vengono sepolti in un panno bianco accanto a una pagoda), i piccoli buddisti possono sperimentare il più alto grado dell’esistenza umana, quella del monaco e, al contempo, i genitori acquisiscono il merito religioso di aver allevato non solo un bimbo ma anche un monaco.
Io e Gianmarco, unici occidentali presenti, seguiamo con videocamera e macchine fotografiche l’allegra e multicolore processione e, senza volerlo, ne diventiamo una delle attrattive principali. Nelle campagne del Myanmar il turismo è difatti pressocchè sconosciuto e tutti, bambini ma anche adulti, ci osservano e ci festeggiano come fossimo delle rock star!
Tutt’altra atmosfera si respira nella grande e movimentata Mandalay, città ricca di templi e monasteri. Dell’antico palazzo Reale, raso al suolo dai bombardamenti britannici durante la seconda guerra mondiale, resta però solo un’immagine sbiadita. Per fortuna, è sopravvissuto ai bombardamenti lo splendido monastero in teak di Shwe-nan-daw-Kyaung, trasportato nel 1880 fuori dalla cinta muraria del Palazzo.
Decidiamo quindi di visitare i dintorni di Mandalay, le rovine dell’antica Ava, i templi di Amarapura, le colline punteggiate di pagode di Sagaing e, soprattutto, l’idilliaco villaggio di Mingun che raggiungiamo in barca navigando sul placido fiume Ayeyarwady. Ci colpiscono la bianca pagoda di Hsin-byu-me con le sue cinque terrazze ad onda che riproducono Meru, la montagna sacra “centro del mondo” e poi l’intatta campana registrata nel Guinnes dei primati: ben 100 tonnellate di peso!
Il nostro viaggio di 26 giorni attraverso Myanmar si chiude nella splendida piana di Bagan, dove tra il 1000 ed il 1300 fiorì l’omonima città. Oggi vi sono solo alcuni villaggi disseminati tra oltre 2000 antichi edifici, pagode e monasteri in mattone o in pietra che ricoprono l’area di resti archeologici buddisti più grande del mondo, dichiarata Patrimonio Culturale dell’Umanità.
Ci gustiamo dall’alto della pagoda di Shwe-hsan-daw, una delle poche che è permesso scalare, uno splendido tramonto, allettante anticipazione di quelli che potremmo ammirare in Thailandia, prossima tappa del nostro lungo viaggio intorno al mondo.
DOCUMENTI PER ENTRARE IN BIRMANIA
Attualmente, in seguito al golpe militare dello scorso primo febbraio un viaggio in Birmania è altamente sconsigliato dalla Farnesina.
Le autorità militari hanno infatti dichiarato lo stato di emergenza per la durata di un anno.
In tempi normali, per entrare in Birmania, oltre al passaporto valido sei mesi con almeno due pagine libere, è necessario il visto d’ingresso (50 dollari USA da pagare in contanti), che si richiede direttamente all’arrivo all’aeroporto di Yangon. Si consiglia di portare con sé una fotografia formato tessera per la scansione.
Il visto ha una validità di 30 giorni. Si consiglia, inoltre, di arrivare in Birmania con sufficiente valuta in contanti, preferibilmente dollari. Di difficile utilizzo sono le carte di credito ed i traveler’s cheque che sono accettati solo presso alcuni alberghi e negozi di lusso.
Claudia Meschini