Un piccolo Paese che, pur destinato per posizione geografica a fare da cuscino fra India e Cina, mondi di grande influenza, ha saputo tuttavia mantenere una sua identità ricca di tradizioni e cultura.
Questo è il Nepal, un Paese che ho avuto la fortuna di visitare prima del terremoto del 25 aprile 2015, violento evento sismico di magnitudo locale 7,8 che ha causato più di 8.000 morti e gravissimi danni, estesi, sia pur in forma minore, anche nelle zone himalayane di India, Cina, Bangladesh e Pakistan.
Quando, nel 2019, sono tornata nella capitale Katmandu, tappa di trasferimento del mio viaggio in Bhutan, l’opera di ricostruzione dei monumenti principali era ancora in corso, mentre la vicina città templare di Bhaktapur stava fortunatamente già ritornando all’antico splendore.
Dal Tibet a Katmandu
Ma torniamo al giro del mondo. Lasciato il Tibet atterriamo a Katmandu dando avvio alla nostra visita della celebre valle, i cui monumenti principali sono inseriti nella lista dell’Unesco come Patrimoni dell’Umanità.
Ci buttiamo nel traffico caotico della capitale, tra strade invase da una quantità travolgente di macchine, moto, risciò a pedali, pedoni, ciclisti e mucche in passeggiata.
Ci addentriamo nei cortile dei bahal, edifici intercomunicanti dove si addensano gli uni sugli altri case con finestre e porte intagliate, minuscoli templi (chayta) che spiccano tra galline, caprette e tra innumerevoli stuoie su cui sono ammonticchiati, in ordine commovente, povere merci in vendita: ravanelli, patate, piccole mele e soprattutto mandaranci.
Qui il turista è guardato come una manna dal cielo. Persino i bambini, fin dalla più tenera età, vengono addestrati a chiamarti: “Hello, money !” (ciao, soldi !)
Gli occhi che tutto vedono
Tra i cortili visitati, quello più affascinante è, forse, Katesimbhu, che riproduce, in formato mignon, il grande stupa di Swayambhu (il tempio delle scimmie), e ne sostituisce per anziani e malati la visita rituale.
Salendo la ripida scalinata che porta al tempio delle scimmie, la prima cosa che io e Gianmarco vediamo sono gli occhi del Budda sul grande stupa, gli “occhi che tutto vedono“ e il naso a punto interrogativo (in realtà raffigura il numero 1 nepalese, simbolo dell’unità).
Gli occhi del Budda ci guardano, poi, anche da uno degli stupa più grandi del mondo, quello di Boudanath, dove fin dagli anni’60 si è creato un conclave di rifugiati del Tibet.
Una comunità di tibetani la incontriamo anche al campo di Jawalakal, vicino alla cittadina di Patan, dove i rifugiati sono riusciti a realizzare una fiorente manifatturiera di tappeti tradizionali.
Alla ricerca della “dea vivente”, la Kumari
Nel nostro girovagare lungo la valle di Katmandu ci attirano la tranquillità, le stradine lastricate di mattoni rossi, le piazza armoniose della cittadina di Bhaktapur.
Pranziamo sul terrazzo del Nyatapola Caffè, pagoda sconsacrata oggi grazioso locale pubblico, con vista strepitosa sul Nyatapola, pagoda a cinque piani con una scala centrale fiancheggiata da cinque paia di guardiani in pietra zoomorfi.
Ci sarei tornata nel 2019, ritrovandola miracolosamente integra, al contrario dei più bassi edifici intorno, tutti crollati a causa del sisma.
A Patan, dove il regista Bernardo Bertolucci girò il suo “Piccolo Budda” ci sorprende il Krishna Mandir, santuario in pietra leggiadro come un gioiello di filigrana.
Invano tentiamo, poi, di scoprire dove si trovasse la residenza della Kumari di Patan, meno importante di quella di Katmandu ma altrettanto degna di nota.
La Kumari, la “dea vivente”, è una bambina, scelta tra molte, in base a ben 32 qualità fisiche e a dati di coraggio non indifferenti.
La dea vive fino all’età puberale in una sorta di reggia-monastero dalla quale può uscire solo in occasione di feste e cerimonie.
Compiuti i dodici anni la Kumari torna in famiglia e, in seguito, può sposarsi e avere figli. Fino a pochi decenni fa, essere il marito di una Kumari si diceva portasse sfortuna ma oggi sono in molti a voler impalmare una ricca ex “dea vivente”.
Tra il tempio della dea Kali e i riti funerari
Siamo più fortunati nel soddisfare i nostri desideri di atmosfere magiche e misteriose, visitando l’ombroso (si trova una grotta) tempio di Dashinkali, dove il sabato ed il martedì, da pellegrini a piedi nudi, vengono sacrificati animali maschi (galli soprattutto) in onore della dea Kali, temibile dea debellatrice delle forze del male.
A condurci in questo luogo lontano dalle consuete rotte turistiche è Subash, una guida nepalese conosciuta a Katmandu.
Subash ci invita poi nella sua modesta casupola di campagna a conoscere la giovane moglie incinta che, gentilmente, ci offre frittatine e biscotti.
Altrettanto suggestiva (e un po’ impressionante) la vista dei funerali, con parenti vestiti di bianco in segno di lutto, che si svolgono a Pashupatinath, luogo di culto induista dove vengono cremati cadaveri deposti su lastroni di pietra lambiti dal fiume sacro Bagmati (il Gange del Nepal).
A Pashupatinath ci sono anche ostelli per chi è in fin di vita. Morire qui viene, infatti, viene considerato un mezzo per purificare lo spirito, così come accade a Varanasi, in India.
Nella foresta tropicale tra innocui alligatori e un inedito cielo stellato
Non poteva mancare nella nostro viaggio in Nepal un tour a Pokhara, località turistica sul bel lago Phewa, da cui si gode la miglior vista sulle cime perennemente innevate dell’Annapurna, e soprattutto a Citwan, la giungla tropicale nepalese, da tempo bonificata dalla malaria.
Dopo un viaggio di 200 km da Katmandu durato ben 7 ore (strade impraticabili e in parte franate a causa delle piogge dell’ultimo monsone), la nostra jeep giunge ai margini del parco naturale insieme ad una miriade di coloratissimi camion provenienti dall’India. Veniamo bloccati ad un check point militare e “assaliti” da decine di bambini che cercano di venderci mandarini e pannocchie arrostite. Superato il posto di blocco, ci aspetta il trasbordo in piroga con tutti i nostri ingombranti bagagli e un caffè ristoratore sulla terrazza del nostro lodge immerso nella foresta tropicale, sulle sponde di un fiume abitato da piccoli e, ci assicurano, innocui alligatori.
Dai capanni a palafitta, illuminati da torce e lanterne (non c’è elettricità), si può ammirare un cielo stellato sorprendente, che ci fa dimenticare le piccole e inevitabili scomodità della giungla.
I consigli per affrontare le insidie della giungla
Il mattino dopo, sveglia alle 5.30, per visitare a dorso di elefante (dotato di sedili in legno per quattro persone) la foresta che si risveglia. A un tratto, piomba da un albero sulla mia caviglia un grosso verme peloso e colorato: caccio un urlo spaventando a morte il resto della carovana. A parte il verme, non avvistiamo altri animali quindi la perlustrazione viene ripetuta, a piedi, in tarda mattinata. Il nostro ranger, non so se per farci entrare nell’ “atmosfera” o per metterci sul serio in guardia, ci fornisce alcuni consigli “da panico”. Se si incappa in un rinoceronte (animale aggressivo ma quasi cieco) bisogna fuggire a zig zag; urla e movimenti scomposti dovrebbero bastare a mettere in fuga un orso (in casi estremi un pugno sul naso), ma l’incontro non sarebbe comunque auspicabile: attacca al volto e agli occhi. Mai dare, poi, le spalle ad una tigre ma fissarla negli occhi, Sandokan docet.
Dulcis in fundo, il sentiero è umido quindi ci viene consigliato di infilare il bordo dei jeans nei calzettoni per evitare le sanguisughe.
A questo punto mi sorge un dubbio: ma che ci faccio io qui !? Meglio restare nel lodge a guardare gli “innocui” alligatori che sonnecchiano sulle sponde del fiume!
Un pomeriggio da turisti
L’entusiasmo degli altri componenti del gruppo, e soprattutto i sorrisetti ironici di Gianmarco, mi fanno però cambiare idea. La passeggiata, in realtà molto semplice, si rivela piacevole e senza grossi intoppi. Avvistiamo un rinoceronte (con conseguente fuggi fuggi generale a zig zag, solo io dimentico la raccomandazione e fuggo in linea verticale), ma l’animale non ci degna di uno sguardo e continua a farsi beato gli affari suoi. Quanto alle sanguisughe, a un nostro compagno se ne attaccano un paio ai calzettoni., ma non succede nulla di grave.
I pomeriggio è all’insegna del divertimento giocoso con il classico bagno a dorso di elefante e relativa doccia direttamente dalla proboscide.
Il mattino dopo ci portano al di là del fiume con una piccola barca dove, dopo aver attraversato una campagna idilliaca che nel periodo dei monsoni si trasforma in acquitrino, incontriamo alcuni villaggi Tharu. Tra le loro semplici capanne in paglia, argilla e letame essiccato, regnano una tranquillità e una pace invidiabili.
Osserviamo donne al lavoro che legano fascine di riso, bambini di ritorno da scuola e ci prepariamo mentalmente ad incontrare le innumerevoli popolazioni rurali del prossimo paese che visiteremo: la Birmania, il Paese dai Mille Templi.
Prima di partire per la nuova destinazione, ci liberiamo degli indumenti invernali usati in Tibet, spedendoli con un cargo aereo in Italia. D’ora in poi il nostro viaggio proseguirà verso Paesi caldi, fino al Guatemala.
DOCUMENTI PER ENTRARE IN NEPAL
Per entrare in Nepal, oltre al passaporto con validità di almeno 6 mesi e due o più pagine libere, occorre esibire il visto d’ingresso.
La procedura per ottenerlo è piuttosto semplice e i turisti possono scegliere di chiederlo in loco, una volta arrivati in aeroporto, oppure online, non più di 14 giorni prima della partenza. Basterà stampare la ricevuta e consegnarla una volta arrivati all’ufficio immigrazione, insieme all’Arrival Card (che viene consegnato durante il volo) e alla ricevuta del pagamento dovuto. Il modulo per il visto per il Nepal si può compilare online sul sito web del Dipartimento di Immigrazione nepalese. In alternativa è possibile affidarsi ad un agente di viaggio che ce lo potrà procurare, a pagamento, presso il Consolato del Nepal a Roma.
Claudia Meschini
Un’avventura nell’avventura, tra piroghe, palafitte, alligatori rinoceronti elefanti e sanguisughe!!!!! Davvero avvincente