Immaginate di essere immersi in una piccola città contornata da parchi e praterie, dove gli abitanti si conoscono quasi tutti, vivono in tranquillità e si riuniscono nella via principale addobbata a festa per il Natale.
Tutto attorno i palazzi che ospitano le istituzioni e gli studi professionali sono copie ridotte della Casa Bianca e si abbinano ai ristoranti e alle costruzioni storiche in legno e mattoni rossi di inizio Ottocento.
A rimarcare la rusticità del luogo, si può visitare il museo dei trattori.
Non vi sitiamo portando in uno dei film natalizi della TV ma nella realtà dove vive Adriano Polo, originario di Campolongo Maggiore. Siamo a Colonial Heights, città della Virginia che si estende lungo la Route 95, sulla costa est degli Stati Uniti, trenta chilometri da Richmond e poco distante da Washingon DC.
Adriano, 65 anni, di cui trentuno trascorsi negli States, vi risiede con la moglie americana Debbie e tre figli: Micheal Francesco, Brian Stefano e Krista Nicol. Passa alcuni mesi dell’anno a Columbus, Ohio, dove lavora come chimico in un laboratorio farmaceutico.
“Sono residente negli Stati Uniti dal 1990 e sono cittadino statunitense dal 2003. Però mi sono formato in Italia – racconta – Mi sono laureato nel 1982 in Chimica all’Università di Padova e, mentre insegnavo alle scuole medie di Campolongo Maggiore, ho vinto un concorso come ricercatore al CNR . Nel 1986, ottenuta una borsa di studio di un anno (poi prorogata per altri 8 mesi), si è aperta l’opportunità di andare a fare esperienza e ricerca alla Virginia Commonwealth University di Richmond. Il dottorato era finanziato dalla NASA. Mi stavo rendendo conto che avrei vissuto per molto tempo in America quando ho conosciuto Debbie. Sono ritornato in Italia, con lei abbiamo trascorso una breve parentesi al CNR, ma abbiamo deciso di ritornare negli Stati Uniti. È stata una scelta difficile: a Padova stavo bene. Avevo la mia famiglia, un posto sicuro, un incarico come consigliere comunale e un altro nella polisportiva del paese. Insomma, andare via dall’Italia non è stato facile”.
Una scelta del destino
La vita di Adriano ha tuttavia alla fine preso la via di Washington quando è stato chiamato come ricercatore associato in Neuroscienze presso la Georgetown University della capitale USA. Il contatto con l’Italia veniva mantenuto attraverso la famiglia e la nuova collaborazione con Fidia, nota casa farmaceutica di Abano Terme.
“Però non era il massimo, la paga era bassa, c’erano dei figli da crescere – ricorda Polo – Occorreva trovare un’alternativa”.
Se la prima esperienza in America si è rivelata difficile, “trovare altri lavori – dice – è stato sempre invece molto facile”.
Da questo momento in poi il racconto di Adriano mostra la grande capacità del sistema sociale e occupazionale americano di adattarsi ai grandi cambiamenti all’interno delle imprese.
Da ricercatore per le compagnie del tabacco alle case farmaceutiche
“Nel 1992 ho iniziato a lavorare all’ American Tobacco Company come ricercatore. Lo stipendio era finalmente elevato, mi trovavo bene. Ma, nel 1994, tutte le compagnie del settore vennero denunciate e la mia azienda, nel 1995, si è trovata a chiudere. Fortuna volle che, subito dopo, trovassi lavoro agli stabilimenti di Richmond della bolognese GD Package Machinery, legata alla produzione di macchinari per il tabacco. Ho subito un taglio dello stipendio, è vero, ma avevo trovato lavoro in poco tempo”.
Tanto è bastato per guardarsi attorno con una certa tranquillità fino a venir assunto, nel 1998, dalla Boehringer Ingelheim, azienda farmaceutica tedesca. Un vero colpo: “Contratto a tempo pieno, pensione, assicurazioni malattie, ottimo stipendio, 4 settimane di ferie. Ho cominciato come Chimico al livello più alto, il III – racconta Adriano Polo – Lavoravo ai Potent Compound, materiali chimici ad alto tasso di pericolosità per la salute ma il livello di sicurezza, per noi tecnici, è sempre stato elevato. Le aziende farmaceutiche sono molto controllate dalla Food and Drug Administration e se non c’è adeguamento con la legge la licenza viene sospesa”.
Il pendolarismo delle grandi distanze
Adriano mantiene il suo ruolo ancora oggi, nonostante diversi passaggi di mano della società (che nel frattempo è diventata giordana) e situazioni mutate. Infatti è ora a Columbus, in Ohio, mentre la famiglia è rimasta in Virginia.
“Sono 800 km di distanza, ma spostarsi tra Stati qui è molto facile”. Fra qualche anno andrà in pensione e potrà dedicarsi alla sua più grande passione: il calcio. Cioè lo sport che lo tiene legato all’Italia.
Il calcio italiano: un apriporta in ogni Paese
“Risiedo a Colonial Heights dal 1993 e fino a quel momento il calcio non era molto popolare. Ho fatto subito il patentino per diventare allenatore. Ho guidato squadre di adulti e di bambini, ottenendo buoni successi”. E sogghigna: “Non sono stato un gran calciatore, ma qui mi scambiavano per Pelè o per un marziano nel gioco del calcio”.
Da allenatore ad arbitro, il passo è stato breve. Ed è arrivato in Ohio.
“Il calcio mi ha permesso di restare legato al mio paese e allo stesso tempo di integrarmi nonostante un breve periodo di diffidenza mostrata per le mie origini. Oggi mia moglie non scherza quando dice che lei, originaria del posto, è meno conosciuta di me”.
La “squadra” dei connazionali
Il legame con l’Italia è forte non solo grazie allo sport ma anche per il valore della famiglia. “Esiste una grande differenza: in Italia il concetto di famiglia è molto più forte e sentito. In America meno, perché le distanze sono enormi. Mio figlio Brian, ad esempio, è ingegnere aerospaziale in Florida. Io stesso lavoro in Ohio. È raro vederci tutti assieme”. E quando si sente la mancanza della Patria, ecco che corrono in aiuto i connazionali a farti sentire meno solo. “In Virginia ci sono moltissimi italiani, una forte colonia di 600 siciliani provenienti da Carini. Parecchi di loro sono proprietari di ristoranti. Sono l’unico veneto e quando all’inizio dicevo agli americani di essere italiano non ci credevano: ero biondo e quasi tutti gli italiani che avevano conosciuto provenivano dal sud e di carnagione mediterranea”.
Tutto è oro quel che luccica?
Adriano si trova molto bene in America: ha un’ottima occupazione, un invidiabile stile di vita, fa e gode di considerazione. Era partito senza aver padronanza della lingua ed era abituato a casa con i genitori.
Si è rimboccato le maniche e ha creato il suo grande bagaglio di vita, arricchito con i valori della tradizione italiana. Gli mancano un po’ il nostro cibo e il perdersi tra le calli di Venezia e le piazze di Padova, è vero, ma in Virginia ha trovato la propria dimensione, a casa come in azienda, dove trasmette le sue conoscenze ai più giovani e ha la stima dei suoi manager.
“Ma vivere in Italia è più rilassante, qui in America stai bene se sei ricco; lo stato sociale non esiste molto – precisa – Specialmente nel corso della pandemia, a soffrire sono i più poveri e i clandestini, che qui sono moltissimi”.
Il Coronavirus in America
Il Covid ha amplificato le differenze e la situazione è disastrosa: cinquanta Stati, ognuno ha il suo lockdown e le sue regole. In alcune realtà la mascherina non è neppure obbligatoria. In Virginia bisogna averla ma non ci sono controlli e nessuno ti multa. Gli americani non hanno imparato molto dall’esperienza italiana, eppure avevano tre settimane di vantaggio. Sostenevano che la popolazione italiana è più anziana e quindi soggetta a un alto numero di decessi. Ora è tutto cambiato rispetto allo scorso anno: anche qui si è capita la portata del dramma e sono state prese delle precauzioni, purtroppo in ritardo. C’è ancora molta gente convinta che il Covid sia finzione. La mia azienda per fortuna ha mosso i passi giusti, creando due turni di lavoro, mantenendo operativa la struttura dalle 7.30 della mattina alle 23.30. E quando non si poteva andare in laboratorio era possibile applicare lo smart-working.
L’Italia, la terra amata che non offre opportunità ai giovani
Se Adriano è critico sulla gestione americana della pandemia, non lo è di meno rispetto all’Italia per l’assenza di opportunità di lavoro del nostro Paese. “Già nel 1986 la situazione era disastrosa – rileva -Burocrazia troppo invasiva e in ambito lavorativo le promozioni non avvenivano per merito ma per conoscenza. Se hai più di 40 anni e resti senza occupazione è un problema. Questo in America non esiste. Non esiste la burocrazia e aprire un’azienda è facile. Anche a 65 anni ricevo ancora proposte di lavoro. Non conta l’età ma l’esperienza che hai accumulato nel corso della carriera. Il bello è che puoi ricevere proposte di lavoro da qualsiasi angolo del Paese, non è importante da dove vieni”.