La situazione economica attuale vista da due aziende del territorio divenute leader nel settore delle macchine utensili grazie alla capacità di proporsi ai mercati esteri. Fpt e Gasparini raccontano le loro storie e le ricette da importare
Per alcune aziende del nostro territorio l’essersi proposte ai mercati esteri é risultato, a posteriori, non solo l’antidoto anticrisi ma il vero é proprio segreto del loro successo. Aziende, o meglio imprenditori, che si sono avventurati in tempi non sospetti laddove altri competitors non si erano mai spinti. È il caso di Fpt Industrie e Gasparini.
Una storia al confine tra il pioneristico e l’eroico è quella della Fpt Industrie Spa di Santa Maria di Sala: leader del mercato internazionale per l’alta sofisticazione delle macchine utensili che produce e per i prestigiosi clienti che vanta nel suo portfolio. Pochi dati bastano a fotografare questo vero e proprio colosso: una sede produttiva di 26.000 mq, un totale di 385 addetti impiegati, 7 filiali operative in Germania, Usa, Canada, Cina, Russia, Corea e India oltre agli uffici in Brasile, Finlandia, Spagna e Francia.
«L’azienda è nata grazie a mio padre, tecnico esperto di macchine utensili che ha operato nelle più importanti aziende del settore – racconta Gabriele Piccolo, Presidente e Amministratore Delegato di Fpt Industrie S.p.A – nel 1969 fondò la Fpt partendo da una attività inizialmente artigianale al servizio di grandi aziende. Quando nel 1974 sono entrato io ho spinto affinché ci concentrassimo sulla produzione di uno specifico prodotto: dopo accurati studi abbiamo realizzato una macchina che sintetizzava il meglio del mercato. Troppo all’avanguardia per il sistema tradizionale italiano, dal momento che il suo funzionamento era affidato esclusivamente a sistemi elettronici, è stata il mio biglietto da visita per il mercato statunitense: grazie a questo dai primi anni ’80 la nostra fama era maggiore in USA che in Europa».
Se ripensa a quei tempi quale considerazione le viene? «Oggi posso dire che fu un vero e proprio miracolo: una piccola-media azienda da sola aveva conquistato un mercato come quello statunitense quando i nostri concorrenti, molto più strutturati di noi, operavano limitatamente al mercato nazionale e a malapena in quello europeo. Di fatto abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo e l’operazione è risultata vincente. Abbiamo poi investito il ricavato nell’implementazione della struttura con l’assunzione di ingegneri e meccanici specializzati che ci hanno permesso di apportare tutta una serie di innovazioni del prodotto. Grazie a questo siamo da oltre vent’anni l’azienda leader mondiale del nostro settore con 15 brevetti internazionali e 60 ingegneri che progettano in tutti i campi: oggi proponiamo impianti in grado di produrre componenti meccanici ad alto tasso di sofisticazione».
Chi sono oggi i vostri clienti? «Ci rivolgiamo soprattutto al settore spaziale, aeronautico e dell’energia più evoluta. Oggi abbiamo delle tecnologie uniche al mondo per l’unione di parti complesse come carlinghe di aerei. Grazie a questo vantiamo tra i nostri clienti colossi come Nasa, Boeing, Airbus, Siemens insomma i più grossi trader mondiali. Abbiamo inoltre mantenuto un rapporto privilegiato con il mondo automobilistico che negli anni ’90 rappresentava gran parte del nostro mercato. I nostri impianti ora sono utilizzati per realizzare le migliori auto della Formula Uno: Ferrari, Red Bull, Mc Laren, Mercedes e Toro Rosso oltre che Audi-Mercedes e Lamborghini».
Secondo lei oggi altre aziende potrebbero seguire il vostro esempio? «La credibilità di una azienda e di un prodotto si acquisiscono con il tempo. Oggi la necessità di avere risposte immediate dal mercato non consente questo tipo di percorso; o ci si aggrega ad una rete già attiva all’estero o difficilmente si riesce a penetrare il mercato globalizzato. Purtroppo l’imprenditore italiano in questo senso ha dormito per 20 anni e la classe politica non si è interessata al problema, per usare un eufemismo. Si parla di distretti, di azioni per proporsi ai mercati con pacchetti di prodotti. Si tratta sicuramente di iniziative validissime ma ricordo che a metà anni ’90 quando facevo i miei primi viaggi in Cina le delegazioni tedesche erano attivissime e si presentavano con la stessa logica. Stiamo quindi cercando di fare ora quello che i nostri competitors facevano allora. Bisogna comunque provarci, ma è necessario anche tenere presente il tempo che si è perso».
Cosa si augura per il futuro dell’imprenditoria del nostro territorio? «Mi piacerebbe che ritrovasse l’antico orgoglio e splendore, anche se, ad oggi, non è tutto così negativo come lo dipingono i quotidiani. Credo sia l’ora di metterci la faccia per sopperire alle risposte concrete che non arrivano dalla politica e per evitare la “fuga di cervelli” all’estero. È però necessario fare squadra tra imprenditori, mettendo le nostre competenze e le nostre risorse al servizio della collettività; anche selezionando e incentivando chi ha grandi idee ma non ha mezzi, organizzazione e contatti».
Parla spesso di fare squadra e di aiutarsi reciprocamente. Ha in mente un modello di riferimento? «Mi piacerebbe che prendessimo spunto dal modello tedesco dove la condivisione di un obiettivo e la mancanza di frammentazione tra le categorie ha portato ad una unione di intenti vincente. Per vincere le sfide non servono cervelloni o ricette magiche ma persone che facciano poche cose e che stiano insieme. La gente è disposta a fare sacrifici, ma solo se viene proposto un progetto, un obiettivo concreto. Per la Germania è stato così: dopo la riunificazione le categorie si sono sedute attorno ad un tavolo con la consapevolezza che il Paese sarebbe andato incontro a 10 anni di sacrifici dopo i quali sarebbe stato molto più forte di prima. Per intraprendere un cammino analogo dobbiamo fare in modo che le parti sociali imparino a dialogare tra loro».
Da cosa comincerebbe? «Abbiamo una spesa pubblica esagerata. Basti pensare anche solo alla rete di Comuni: io abito a Camposampiero e, se considero un raggio di 5 chilometri, trovo 8 comuni. Possiamo permetterci tutto questo? Non è forse il caso di semplificare le cose?»
Venezia e l’arte anche per lei e per la sua azienda hanno un significato speciale… «Sono appassionato d’arte e alle pareti della mia azienda ho voluto appendere opere antiche e moderne: di fronte a loro ogni individuo è in grado di provare sensazioni sempre diverse. È anche un modo per far sì che ogni lavoratore possa staccare la mente e metterci del suo. Venezia è arte con la A maiuscola, dovrebbe essere la città metropolitana per antonomasia non fosse altro perchè è universalmente conosciuta. Lo dico da padovano quale sono perché sono convinto che la riconoscibilità abbia un valore inestimabile. Quando giro per il mondo a parlare dei miei prodotti e dico che provengo da Venezia, chi mi sta di fronte mi risponde o che ci è stato oppure che gli piacerebbe venire. Quando sento queste parole mi viene da pensare che servirebbero strategie e strutture adeguate per portare un certo tipo di turismo e per fare in modo che i 28 milioni di visitatori che ogni anno passano di qui siano anche portatori di una maggiore ricchezza per il territorio».
Altra storia eccezionale è quella della Gasparini di Mirano, protagonista nel settore della deformazione della lamiera dal 1952. Oggi realizza impianti di profilatura utilizzati da 1.200 aziende nel mondo e la sua rete commerciale è attiva in 35 Paesi con proprie sedi o con partnership locali. «Esportiamo il 95% di quello che produciamo – spiega Filippo Gasparini, dal 1993 Presidente e Amministratore Delegato dell’azienda creata dal padre e dallo zio – un dato che è andato crescendo negli ultimi anni. Di quel 95% complessivo, inoltre, il 60% è destinato ai nuovi mercati extra UE come India, Cina, Brasile e America Latina in genere ma anche Stati Uniti grazie al cosiddetto reshoring ovvero la rilocalizzazione della produzione in patria». Come funzionano gli impianti che producete e commercializzate? «Progettiamo e realizziamo impianti di profilatura su commessa, ovvero macchine automatiche o semiautomatiche per la lavorazione del metallo. Le nostre linee eseguono lavorazioni di formatura a freddo: attraverso il passaggio di nastri di lamiera da bobina (coil) in set di rulli motorizzati, il materiale viene deformato fino a raggiungere la sezione (forma) desiderata. I nostri impianti lavorato lamiere da uno spessore di 0,2 mm a un massimo di 12 mm. Gli impianti sono integrati, a seconda delle esigenze produttive, con sistemi di punzonatura, foratura, piegatura, saldatura, taglio, movimentazione e imballaggio, che vengono anche essi progettati e realizzati da noi. Siamo un’azienda B2B, e le aziende clienti utilizzano i nostri impianti per la produzione di profili in metallo che costituiscono il prodotto finito o parti di esso. Le applicazioni sono moltissime in ambiti molto diversi ma possiamo considerare 4 macro settori principali: costruzioni (coperture e pareti, lattoneria), automotive (rinforzi ed elementi strutturali per auto e camion), logistica (scaffalature industriali e per supermercati), energia (supporti ed elementi per pannelli solari, canaline portacavi, illuminazione, elementi per armadi elettrici)».
Recentemente ha fatto notizia il vostro successo in un mercato apparentemente impenetrabile come quello cinese… «La Cina è un Paese noto per il basso costo della mano d’opera, che si sta velocemente sviluppando anche nel settore macchine utensili. Rappresenta un mercato difficile da penetrare con un’enorme potenzialità, dove non è possibile competere con il prezzo del produttori locali, ma dove vi sono aziende che richiedono ugualmente flessibilità, qualità e produttività. Queste sono le armi che utilizziamo per affermarci in paesi molto lontani, paesi dove il know-how italiano è riconosciuto e apprezzato».
L’orientamento verso l’estero vi ha portato anche ad una presenza fisica in vari Paesi con sedi e uffici… «Fino al 2000 si poteva parlare solo di esportazione mentre dal 2007 si parla più propriamente di internazionalizzazione. Abbiamo, quindi, aperto uffici nei vari paesi con personale controllato direttamente dalla sede di Mirano o addirittura sedi produttive in loco come quella in Brasile recentemente inaugurata. Anche perché per noi Brasile significherà una via d’accesso al Mercosur ovvero al mercato comune tra quei paesi dell’America Latina che prossimamente si apriranno al libero scambio, analogamente a quanto avviene oggi in Europa».
Cosa si augurerebbe per facilitare l’approccio delle nostre aziende ai mercati esteri? «Sarebbe auspicabile che le aziende italiane muovessero verso l’estero in modo coordinato, come fanno altri paesi, e con il supporto di enti preposti che diano una spinta propulsiva per la diffusione dei nostri prodotti. Mi piacerebbe che anche in Italia ci fosse un sentimento e una volontà di crescita industriale come si riscontra in Cina, Stati Uniti e Brasile. Questi paesi credono infatti che la politica industriale darà i suoi frutti con ricadute positive sul benessere di tutta la popolazione. Qui invece facciamo i conti con tutta una serie di difficoltà burocratiche anche banali a cominciare dai visti d’ingresso per i nostri clienti. Dovrebbero esserci delle autonomie territoriali in grado di poter rispondere in tempi strettissimi a questo tipo di richieste» .
A livello organizzativo e gestionale cosa importerebbe dagli altri Paesi? «Il mondo scolastico in altri Paesi è molto più vicino all’industria: in Germania, ad esempio, esiste un training di almeno un anno, di raccordo tra scuola e mondo del lavoro. Inoltre trovo molto utile l’apprendimento di due lingue, tradizionali o meno».
Qual è la sua opinione sulla situazione economica del nostro territorio? «Sono preoccupato perché la nostra azienda esiste grazie anche al fatto che abbiamo un cluster di fornitori del territorio essenziali per la nostra sopravvivenza e per la nostra crescita. Fornitori che devono essere a noi fisicamente vicini per soddisfare tempestivamente le nostre esigenze. Molti di questi purtroppo stanno soffrendo per via della crisi. Sono aziende piccole ma che hanno competenze importanti. Per questo auspico una sostenibilità dell’impresa a livello finanziario. Trovo inoltre paradossale che talvolta si debba fare i conti con ostacoli che sembrano non considerare il ruolo sociale delle aziende e della situazione economica attuale. Se ci fosse un ente con grosse autonomie decisionali e operative forse sarebbe più facile arrivare a semplificare la macchina burocratica e i conflitti di competenze che allo stato attuale impediscono di risolvere le questioni».
DI FEDERICO BACCIOLO