Dall’olio su teglia all’olio su tela
Mai banali le frittelle, soprattutto a Venezia. E non solo a Carnevale.
Si trovano ovunque, è vero, ma pochi sanno forse che, in origine, erano autorizzati a farle, in esclusiva, solo 70 “fritoleri”.
Una corporazione vera e propria, che si tramandava “l’arte di far la fritola” di padre in figlio.
D’altra parte mica si trattava di un dolce qualunque: le frittelle erano il dolce nazionale della Serenissima ed erano talmente apprezzate (e scopiazzate) che, nel 1700, diventarono “dolce nazionale dello Stato Veneto”.
Gustose, fatte con lo strutto, il latte di capra e lo zafferano, hanno ispirato commediografi e pittori, tanto da diventare protagoniste di opere e dipinti famosi.
Hanno offerto spaccati di quotidianità godereccia e lasciva che andava oltre la gola. E sono arrivate fino a noi, svelando una Serenissima popolare e nobile, talvolta mascherata nel più bel Carnevale del mondo.
Uno spiedino di fritole
Comparse con Orsola la fritolera nel “Campiello” di Carlo Goldoni (1756) o protagoniste ne “La venditrice di frittole”, dipinto di Pietro Longhi datato 1750 e conservato a Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano, le fritole rivelano sempre figure gioviali che assaporano la Venezia da bere (nelle Malvasie e nei San Marchi) e da mordere.
Il quadro di Longhi è una fotografia, un corsivo in cronaca, la caricatura di un nobile che acquista le fritole da regalare a due belle fanciulle come un mazzo di rose.
E’ grazie a lui che sappiamo che venivano infilzate in uno spiedo e si mangiavano calde.
I fritoleri, gli artisti della Serenissima pasticceria
Vestiti con un grembiule bianco, i fritoleri utilizzavano un vaso bucherellato per cospargere i dolci di zucchero. Saper far la fritola era considerata un’arte, tant’è vero che il mestiere dei “fritoleri” era riconosciuto e incardinato dalla Repubblica di San Marco in una precisa corporazione con tanto di mariegola (capitolare, statuto conservato all’Archivio di Stato di Venezia) ad hoc e specifica insegna dell’arte.
Le fritole nelle tele
Maestri dell’impasto, friggevano e vendevano le fritole all’aperto, utilizzando delle grandi padelle che poggiavano su tripodi.
Ne troviamo evidenza in un olio su tela (mm 387×521 ) ospitato al Museo Correr datato 1784 e attribuito a Gaetano Zompini.
La scheda dedicata all’opera da Michela Dal Borgo, operatrice di lungo corso presso l’Archivio di Stato di Venezia, nel catalogo della mostra “Acqua e Cibo” racconta che” Ai fritoleri spettava il ius di vender qualunque frittura, sia polpette, raffioli et altre fritture aspettanti al detta arte in pastela, in oglio et untumi” e che “esistevano in Venezia 70 posti fissi assegnati ai frittoleri, che tramandavano il mestiere di padre in figlio, senza obbligo di garzonato. Solo in assenza di eredi il gastaldo dell’arte provvedeva a scegliere il sostituto, poi sottoposto all’ approvazione della Giustizia Vecchia”.
L’origine della fritola
Storicamente le ricerche più recenti e i divulgatori più autorevoli come Giampiero Rorato parlano di una preparazione risalente ai tempi degli antichi romani conosciuta come “globulos” (globo) che “mescolato con cacio e “alica” si fa della grossezza desiderata e si tuffa nel grasso bollento in una padella di rame” o di “pietanza di pasta molto tenera a forma di luna, che viene fritta nell’olio, quindi mangiata con miele o zucchero” che risale addirittura all’XI secolo d.C. ed era molto diffusa in Egitto e Siria.
Ma è a Bartolomeo Scappi, cuoco di cardinali e papi, rinomato autore dell’opera Venezia 1570, che dobbiamo quella che viene universalmente riconosciuta come la ricetta storicamente più autorevole.
Le vere fritole veneziane
Lo scritto imponente di Scappi, diviso in ben sei volumi, primo trattato post medievale che ha rivisitato cibi, pietanze e cotture, ha dedicato alle frittelle e alla loro preparazione il cap. CXXXVI del Libro V. Sappiamo così che la vera frittola veneziana non era fatta con burro ma con strutto caldo e freddo, con “quattro oncie d’acqua rosa, et un poco di zafferano, et sale a bastanza”,con 24 uova fresche, due libbre di farina, sei “oncie di butiro fresco, et quattro oncie di zuccar”.Prima di passare all’impasto, però, Scappi consigliava di far “bollire sei libre di latte di capra in una cazzuola ben stagnata”.
Le fritole del Carnevale
La fritola è comunque un dolce tipico del Carnevale, periodo che secondo il calendario liturgico cattolico-romano va dal primo giorno di Quaresima fino al giovedì santo prima di Pasqua. Come indica l’etimologia latina del termine (carnem levare) quelli del Carnevale erano in origine giorni in cui togliere la carne dalla dieta quotidiana .Continenza e spirito penitenziale. Qualcosa dev’essere sfuggito nei secoli, soprattutto a Venezia (ne parla per primo il Doge Vitaliano Falier in un documento del 1094), se è diventato il periodo del divertimento e della spensieratezza per eccellenza. E la fritola è diventata cibo goloso, libidinoso, dolce, come solo anche i galani sanno essere.
Fritole e galani per i veneziani
Nonostante i crostoli, da cui derivano, non siano una preparazione strettamente “veneziana” o veneta, accanto alla fritola veneziana, nel tempo, si sono affermati i galani.
Si chiamano anche “crostoli” perché in latino “crustulum” significa dolcetto, così come il pasticcere romano si chiamava “crustularius” e nell’antichità erano un’evoluzione della lasagna fritta e cosparsa di miele. Nei secoli sono divenuti frappe, chiacchiere, bugie e appunto galani, addolciti con zucchero. La particolarità dei galani veneziani, chiamati così perché con forma simile ai nastri annodati detti un tempo “gala”, è che hanno un impasto sottile (più grossolani in terraferma) e una forma allungata.