È giunto il momento di riorganizzare il territorio, con collegamenti di un paese che si definisce civile, con scelte urbanistiche che lo devono rilanciare: perché è indubbio che in questi anni è mutato profondamente ed è mutata anche la società.
La famosa locomotiva del Nordest è su un binario morto e oggi nulla lascia pensare che possa rimettersi in moto. È bloccata per colpa della crisi ma anche per l’autolesionismo italico cui il Veneto non si è sottratto: campanilismi, veti incrociati, incapacità di fare sistema, politiche inconcludenti e, come insegna lo scandalo Mose, malaffare e corruzione di pochi a danno di molti, alla faccia del cosiddetto bene comune. Dovesse mai ripartire, lo farebbe lentamente perché il Nordest è ancora sotto choc dopo essere passato dal benessere alla povertà: basti citare i 200 mila disoccupati, le migliaia di aziende che hanno chiuso, l’esercito dei cassintegrati e degli esodati, una pressione fiscale astronomica che arriva anche al 70 per cento e che nessuno pare voglia o possa ridurre, con le paradossali uscite del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che ne invoca l’abbassamento, ma che non muove un dito perché alle aziende massacrate dal Fisco venga dato un po’ di respiro.
Sono anni che si sente dire che il Nordest “deve fare squadra”. È diventato un mantra patetico, perché è sempre avvenuto il contrario. Separati in casa, potremmo dire. Sarà perché questa è la culla dell’individualismo, dove chi fa per sè fa per tre. Ma sono i localismi e i piccoli egoismi territoriali, l’antagonismo pretestuoso dei partiti, una guerra continua che vede opposte associazioni di categoria e parti sociali e soprattutto una diffusa mancanza di intrapresa e di cambiamento a impedire qualsiasi ripresa.
Il Veneto sembra un pugile suonato che barcolla e che cade senza riuscire a rimettersi in piedi da solo, e che oggi ha bisogno della classica barella. Anche qui si stanno vendendo i gioielli di famiglia. A Roma sono arrivati gli emiri per rilevare l’Alitalia, e qui sono sbarcati i cinesi: non vogliono tra i piedi i sindacati, 800 euro lo stipendio, poche ferie e vietato ammalarsi, prendere o lasciare. Alla Acc di Mel hanno deciso di prendere, anche se a malincuore, perché l’alternativa era la chiusura. Per la serie è finita l’era degli schizzionosi e di quanti hanno ritenuto troppo a lungo che il lavoro sia solo diritti e niente doveri, che il lavoro piove dall’alto, e che se non c’è interviene qualche aiutino dello Stato. Una mano pubblica probabilmente interverrà per salvare l’Unità che non sta più in piedi da anni nonostante riceva contributi milionari, mentre le piccole e medie imprese vanno gambe all’aria senza che nessuno dei mandarini della Casta faccia un plissè. Più dignitoso, tutto sommato. Per foraggiare una macchina statale che brucia 800 miliardi di euro l’anno con una spesa pubblica crescente e una spending review che revisiona poco o nulla al centro chiedendo invece i sacrifici alle periferie, questo Stato dissangua il motore dell’economia.
Quando saranno solo macerie e la disoccupazione giovanile sarà passata dal 47 per cento al 60 e oltre dove crederanno di trovare altre risorse per pagare i bagordi statali dei mandarini della capitale? Chi altro potrà alimentare i loro privilegi e i loro sprechi se non le imprese ormai morte? Chi mai potrà sanare un debito pubblico che supera i 2 mila e 200 miliardi?
La dissennata gestione delle infrastrutture, con le tangenti e gli appalti truccati, ha dato il colpo di grazia all’immagine del Veneto virtuoso. Come al solito i veneti non sono soliti fasciarsi la testa e alzare bandiera bianca, sia pure in questo scenario a dir poco sconfortante che induce alla disperazione (e basta contare il numero dei suicidi) più che alla speranza. Ci sono aree come quella del Veneziano che, nonostante tutto, potrebbero trainare il cambiamento. Venezia, devastata da un turismo di massa a briglie sciolte, calpestata e lordata ogni anno da 28 milioni di turisti, rimane pur sempre un emblema nel mondo, un brand, come direbbe Renzi, che anche la peggiore politica non potrà mai compromettere. Oggi Venezia è commissariata e senza guida politica dopo le ingloriose dimissioni del sindaco Giorgio Orsoni e della giunta. Ma non è pensabile che questioni importanti come quella delle grandi navi possano andare alla deriva con danni incalcolabili per l’economia locale. Le grandi navi vanno tolte dal bacino San Marco e spostate altrove ma non vanno eliminate perché altri 5 mila posti di lavoro andrebbero a farsi benedire.
Che si sia d’accordo o meno con l’idea di una grande area metropolitana targata Venezia dove i costi siano ottimizzati grazie, per esempio, ad un’unica grande azienda dei trasporti, risulta evidente la necessità di uscire dall’impasse e dall’immobilismo che le inchieste giudiziarie e gli arresti hanno inevitabilmente rafforzato.
Le grandi opere vanno gestite bene, non annientate. Per fortuna qualcosa si muove: c’è la firma per la Tav fino a Vicenza e questo è un buon viatico per l’alta velocità di domani Milano-Trieste. E a Padova si discute giustamente sull’opportunità di costruire, con questi chiari di luna, un nuovo ospedale, ma una Sanità d’eccellenza (almeno quella la si può vantare) ha bisogno di strutture adeguate. L’ importante è che come è accaduto per il tram di Mestre e il ponte di Calatrava dove i costi sono lievitati e i tempi allungati a dismisura, vengano rispettati i preventivi di spesa. Il Veneto è cresciuto disordinatamente negli anni del boom e con piani urbanistici che gridano vendetta. E’ giunto il momento di riorganizzare il territorio, con collegamenti degni di un paese che si definisce civile, con scelte urbanistiche che a Venezia devono poter veder rilanciare Porto Marghera come polo dell’innovazione e del futuro, con la preservazione del patrimonio storico e culturale della ex Serenissima, che deve essere messa al riparo dalle acque alte ma anche dai barbari, e il rilancio della terraferma con scelte radicali e persino traumatiche quando serve: perché è indubbio che il territorio in questi anni è mutato profondamente ed è mutata anche la società, dove cresce il numero degli indigenti ed è diventato massiccio il fenomeno dell’immigrazione.
I giovani devono trovare un lavoro ma, nelle more, praticare anche lo sport. È mai possibile che in centro a Venezia ci sia solo un campo da tennis, scoperto e malandato, a Sacca Fisola? E si potrà mai dare a Venezia uno stadio degno di questo nome, con tutto il rispetto per il Penzo di Sant’Elena?
Un imprenditore illuminato ha ridato vita e potenziato a sue spese il PalaTaliercio: esempio che la politica degli ignavi dovrebbe seguire. È finito il tempo dell’armatevi e partite. È il tempo delle responsabilità e delle decisioni. Sono scelte inderogabili che l’accentramento dei poteri cui mira lo Stato centrale rendono ancora più difficili e complicate. Sta ai veneti reagire a questa impasse e alle avversità per uscire dal guado come è successo tante altre volte nel corso della loro storia.