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Giovani all'estero: non occorre la laurea per espatriare

Giovani all'estero: non occorre la laurea per espatriare

L’analisi della Fondazione Nord Est sul fenomeno che ha privato il nostro Paese di sempre più giovani, in molti casi spinti dalla necessità di trovare un lavoro

Solitamente, per descrivere il fenomeno dei giovani italiani che scelgono di emigrare all’estero, si parla di “fuga di cervelli”. Il riferimento all’elevato grado di studi, ovvero la laurea e spesso anche successivi master, che sta dietro a questa definizione sta però sempre più perdendo di senso, rendendo il problema ancor più serio.
Perché, come sottolinea la Fondazione Nord Est nel nuovo rapporto “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero”, appena pubblicato, si può davvero di una nuova emigrazione di italiani, “simile per dimensioni alle passate, molto diversa per luoghi d’origine e tipologia di persone”.
“Sono – prosegue la sintesi di presentazione dello studio – giovani laureati o diplomati o che non hanno finito gli studi”. Inoltre, “lasciano soprattutto le ricche regioni settentrionali”. E “quasi la metà degli expat svolge mansioni per le quali le imprese italiane non trovano persone da assumere”.

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I due identikit dei giovani “expat” italiani di oggi

La Fondazione, partendo dalle risposte ricevute dai giovani “expat” alle domande in cui sono stati chiamati a raccontare in prima persona le loro motivazioni, valutazioni, aspirazioni, prospettive, lavori e speranze, ha cercato di dare a sua volta risposte a una serie di quesiti: Perché se ne vanno? Quali sono le condizioni di partenza? Hanno intenzione di tornare? Come giudicano il futuro proprio e del Paese? E cosa dovrebbe cambiare per renderlo attrattivo quanto le nazioni di destinazione?
Un modo per provare a recepire le indicazioni per lo sviluppo italiano direttamente dai giovani protagonisti di questo flusso di espatri, tracciandone il profilo attraverso 2 identikit. Le informazioni raccolte sono state cioè aggregate sulla base delle caratteristiche socioeconomiche e culturali di partenza di chi ha partecipato al sondaggio. Sono in tal modo emersi 2 profili: gli “svantaggiati” e gli “avvantaggiati”. Che, guardando ai motivi che li spingono ad andare all’estero, i ricercatori hanno ribattezzato anche “emigrati per necessità” e “emigrati per scelta”.

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Espatrio dei giovani: il sorpasso della necessità sulla scelta

È proprio da questa distinzione che si è giunti alla conclusione che il fenomeno della fuga dei giovani all’estero è ormai da considerarsi una sorta di “fenomeno di massa”.
Gli emigrati per necessità, cioè persone con tenore di vita dichiarato nella media, provenienti da piccoli centri e con genitori con basso titolo di studio che ricoprono profili professionali di operaio o sono pensionati, sono risultati infatti il 28% degli intervistati, con un altro 49% che invece presenta condizioni intermedie tra i 2 estremi.
Sono invece solo il 23% i giovani expat con un tenore di vita percepito alto o molto alto, provenienti dal centro città di comuni più ampi e con i genitori dirigenti o impiegati, entrambi con almeno il titolo di studio secondario, spesso laureati. Un dato che si unisce alla considerazione che se, tra il 2011 e il 2023, sono emigrati oltre 550 mila giovani, poco più del 30% si è fermato alla terza media e un altro 35% ha invece conseguito il diploma alle superiori, ma non la laurea, pur essendo aumentata negli ultimi 3 anni l’emigrazione di laureati.

Come incidono le condizioni di partenza

Chi emigra per necessità, prosegue l’analisi, lo fa soprattutto (26,2%) per cercare nuove opportunità di lavoro (la quota di disoccupati è superiore ai migranti per scelta, anche se di molto inferiore a quella dei giovani che rimangono in Italia) o una migliore qualità della vita (23,2%). Se invece si può scegliere se emigrare o no, chi si trasferisce oltre i confini lo fa più per le migliori opportunità di studio (29,6%), anche perché raddoppia per loro la disponibilità di borse di ricerca, che per quelle legate al lavoro (21%).

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La provenienza da una condizione di vantaggio, poi, incide anche sugli sbocchi lavorativi. Per questi giovani, infatti, è decisamente più elevata (23,1% contro 4,9%) la percentuale di chi svolge professioni intellettuali, ma anche di chi emigra per fare l’impiegato (40,2% a 30%).
Quote che si rovesciano a favore degli “svantaggiati”, invece, per gli impieghi nei servizi (17,6% a 10,4%), come operai specializzati o semi-specializzati (21,6% contro 2,6%) e soprattutto guardando agli impieghi non qualificati: 8,1% contro una percentuale nulla tra gli avvantagiati.

Una “fuga” che deve far riflettere

I numeri degli expat tra il 2022 e il 2023 parlano di almeno 100 mila giovani usciti, a fronte di appena 37 mila rientrati (e dal 2011 la forbice è ancor più larga: 550 mila contro 172 mila, per una perdita di “capitale umano” pari a 133,9 miliardi di euro). E non si può più parlare di una “questione meridionale”, perché, al contrario, c’è una prevalenza di espatri di giovani settentrionali: 80 mila dal Nord-Est (di cui quasi 35 dal Veneto) e 100 mila dal Nord-Ovest (oltre 63 mila dalla Lombardia). Regno Unito, Germania e Svizzera sono le principali destinazioni.
E se a lasciare il nostro Paese non sono più, come visto, solo i “cervelli” laureati, desta comunque preoccupazione, sul fronte qualitativo, il fatto che poco meno della metà dei giovani fuoriusciti per necessità, oltre 130 mila, svolge mansioni (tecnico, qualificato nei servizi, operaio specializzato, operaio semi specializzato, lavoratore non qualificato) per cui le imprese italiane denunciano mancanza di manodopera, evidentemente pagando politiche di organizzazione del lavoro e di governance poco attrattive per le nuove generazioni.

Alberto Minazzi

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