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Ma però, a me mi piace… dire che non è sbagliato

Ma però, a me mi piace… dire che non è sbagliato

Da Dante a Manzoni, non mancano gli esempi dei grandi della letteratura italiana che hanno usato questi (presunti) errori

Nell’era del digitale, la famigerata “matita blu” in dotazione agli insegnanti per sottolineare gli errori gravi all’interno di un testo scritto probabilmente non si usa più.
E, un po’ a sorpresa, in alcuni casi in genere ritenuti “esemplari” non si potrebbe nemmeno più usare.
Per esempio, chi scriverebbe il classico “a me mi”? O l’altrettanto (apparentemente) erroneo “ma però”?
In realtà, dice l’autorevole Accademia della Crusca, punto di riferimento per la lingua italiana, l’errore, in questo caso, è… vederci un errore.

Perché gli esempi di chi ha utilizzato tali espressioni non mancano. E, in alcuni casi, possono suonare anche come clamorosi, visto che sono inseriti in testi basilari della nostra letteratura.
Basta fare due nomi: i “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni e la “Divina Commedia” di Dante Alighieri.

A me mi: ci piace

In risposta ai dubbi in merito espressi da molti lettori, relativamente alla prima questione, ovvero quella dell’uso nella lingua scritta della ripetizione “a me mi”, la Crusca riporta un articolo pubblicato già nel 1990, a firma Giovanni Nencioni.
Secondo il linguista e lessicografo fiorentino non è sempre corretto parlare, come fanno certe grammatiche, di un pleonasmo, ovvero di un inutile riempitivo o di una ridondanza a cui l’enfasi del parlante si sente trascinata.
“Il primo pronome, tonico, ha più forza del secondo, atono”, sottolinea.

Insomma, “a me” può avere un valore diverso dal “mi” inserito nella stessa frase.
In certe frasi, cioè, equivale a “quanto a me, per quanto ne so io”.
Una tesi il cui esempio è proprio manzioniano: la risposta (“A me mi par di sì”) che una vecchia dà a Renzo nel capitolo XVI dei “Promessi Sposi”.
Nencioni dà quindi un suggerimento di tipo grafico, proprio per evidenziare il diverso senso da attribuire a quell’“a me”: inserire subito dopo una virgola, “separando il tema dell’enunciato dal suo “rema”, ossia dalla sua parte predicativa, che contiene la vera informazione della frase”.

“A me mi”: oltre le semplici parole

Giustificarsi con la maestra dicendo “l’ha scritto Manzoni” non è dunque un semplice alibi, per uno scolaro pescato in fallo in un suo tema.
Tanto più che, è sempre Nencioni a farlo notare, l’autore milanese si è spinto, sempre nei “Promessi Sposi” anche più in là.
La citazione, in questo caso, è dal capitolo IX ed è attribuita al personaggio di Gertrude. “Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto”. Qui la virgola c’è. A mancare, con un’operazione ancor più ardita dello scrittore, è la preposizione “a” prima di “noi”. Il tema, cioè, è assolutizzato.

Se le presunte ridondanze possono essere legittimamente utilizzate, senza impoverire la frase, per mettere in rilievo, attraverso la sottolineatura, per esempio dei gusti o dei pareri personali, ciò però non significa che le regole non hanno più senso.
Le forme tradizionalmente ritenute scorrette sono abituali in certe declinazioni regionali della lingua e soprattutto nell’uso colloquiale.
C’è insomma una grammatica del parlato accanto a quella dello scritto. E la lingua è una sola, ma può adempiere funzioni comunicative ed espressive diverse.

Sì, ma però…

Sta a una grammatica moderna, conclude Nencioni, rendere conto di tutte queste sfaccettature, “guidando lo scolaro a distinguerle e ad usarle nei contesti opportuni.
Una considerazione che è valida anche per uno di quelli che, generalmente, vengono ritenuti uno strafalcione: l’uso contemporaneo di “ma” e “però”.

Anche qui, la tesi tradizionale è che, essendo entrambe congiunzioni avversative, si sia in presenza di una ripetizione da evitare. L’elenco di chi non l’ha fatto, a pieno titolo in quanto i linguisti evidenziano come il secondo elemento rafforzi il significato del primo, è però anche in questo caso lungo e notevole.

Non solo Tasso e Alfieri, tanto per citare due grandi autori italiani, ma persino quello che è ritenuto il “padre” della nostra lingua: Dante Alighieri. L’esempio-simbolo si può trovare nel Canto XXII dell’Inferno: “Ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l’ali sue”.
E figuriamoci se manca l’esempio manzoniano. Siamo sempre nei “Promessi Sposi”, al capitolo XXXIII”. “Ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo” si sente dire Renzo parlando con un amico. Il doppio avversativo, in questo caso, serve proprio a simulare il linguaggio colloquiale quotidiano, aumentando l’autenticità del discorso”.

Alberto Minazzi

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Tag:  italiano, lingue