Uno studio dell’Università di Padova ha approfondito le conseguenze per la pesca derivante dalla specie arrivata in Laguna di Venezia nel 2010
A prima vista, la si può scambiare per una piccola medusa.
La Mnemiopsis leidyi, nome scientifico della cosiddetta “noce di mare”, è in realtà uno ctenoforo, che non ha tentacoli e non risulta urticante per i bagnanti.
Ciò non significa assolutamente, però, che questa specie aliena originaria dell’Oceano Atlantico, ma che si è rapidamente ambientata nel Mediterraneo, Adriatico compreso, a causa del riscaldamento delle acque, non sia dannosa, anzi.
Dopo le prime segnalazioni risalenti al 2010, in Laguna di Venezia la noce di mare è in crescita esponenziale da una decina d’anni e sta creando ai pescatori ancor più danni del temuto granchio blu.
Un problema che è stato ora analizzato in uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Istituto nazionale di Oceografia e geofisica sperimentale di Trieste, pubblicato sulla rivista Hydrobiologia.
I danni della noce di mare per la pesca
Sono principalmente due, sottolinea lo studio, le insidie al pescato legate alla presenza della noce di mare.
Lo ctenoforo, impigliandosi nelle reti, le intasa meccanicamente, rendendole inefficaci per la cattura dei pesci. Inoltre, gli esemplari si nutrono di zooplancton e uova e larve di pesci e molluschi ritenuti pregiati per la pesca.
La specie ermafrodita che si riproduce velocemente
È questo, infatti, il periodo in cui è esplosa la presenza di esemplari di noce di mare, che sfrutta il suo ermafroditismo, cioè la presenza degli apparati riproduttori maschili e femminili nello stesso individuo, per riprodursi in maniera estremamente efficace.
In condizioni favorevoli, spiega Filippo Piccardi, primo autore dello studio, un singolo individuo può arrivare a produrre fino a 14 mila uova al giorno.
L’impatto sull’ecosistema lagunare e sulle tradizioni
“I nostri risultati – conclude lo studio – rappresentano un primo passo nella valutazione degli impatti a breve e lungo termine di questa specie invasiva sugli ecosistemi lagunari, comprese le sue conseguenze socioeconomiche, la cui migliore comprensione è fondamentale per orientare le misure di mitigazione e adattamento”.
Un impatto che i ricercatori hanno direttamente collegato alla riduzione del pescato del 40% registrato in Laguna tra il 2014 e il 2019.
In prospettiva, oltre all’impatto sull’ecosistema, in particolare per la crescita dei pesci ossei, il rischio sottolineato dagli studiosi è anche quello di costringere i pescatori ad abbandonare tradizioni quasi millenarie, che impiegano attrezzi ad elevata sostenibilità. L’esempio è quello del cogollo, un attrezzo già poco utilizzato ma ritenuto adatto in particolare per la pesca in Laguna e nelle zone costiere caratterizzate da bassi fondali.
Noce di mare: conosciamola meglio
Quasi trasparente e dalla consistenza gelatinosa, lunga fino a 10 centimetri, la noce di mare utilizza bande di ciglia mobili (“ctenoforo” significa “portatore di pettine”), collocate in diverse parti del corpo, per muoversi e catturare il plancton. Nel 2016, Ispra ipotizzò che gli ctenofori presenti in Laguna di Venezia siano originari delle acque marine costiere e di estuario dell’Atlantico occidentale.
Dall’oceano, la specie si è diffusa, soprattutto negli ultimi 30 anni, molto principalmente attraverso le acque di zavorra delle petroliere e delle grandi navi. La noce di mare ha raggiunto già nel 1982 il Mar Nero, poi il Caspio, diversi punti del Mediterraneo e più di recente anche nel Mare del Nord e nel Baltico. Non è da escludere però che la diffusione possa in alcuni casi essere legata anche al trasporto tramite correnti marine.
Alberto Minazzi