Marta Telatin: ” Se mi dicessero che domani potrei recuperare la vista, direi ‘aspetta un attimo, ci penso’
La piccola folla di avventori si ammassa nella veranda del ristorante, sorseggiando del vino bianco frizzante, in attesa della chaperon per la serata.
Poi arriva: la voce squillante e le spiegazioni precise, puntuali.
“Per versarsi da bere – dice -infilate una o due falangi del dito nel bicchiere e versate, finché il liquido non ne tocca la punta”.
Marta dispone la folla in file da sette, otto persone, si mette alla testa del treno umano e cammina; oltrepassa la porta, sposta la tenda e si infila nel buio, al fianco di uno dei tavoli a cui le persone si accostano, titubanti, cercando la propria seduta.
“Muovete la mani come dei piccoli serpenti sul tavolo”, suggerisce; si cercano la tovaglietta di fronte a sé, l’unica forchetta a disposizione, il bicchiere, le due bottiglie: d’acqua, più grande e affusolata, e di vino, rosso o bianco a discrezione del palato.
Tutt’attorno, il buio.
“Non cercate di tirare gli occhi per guardare” avverte Marta Telatin, poetessa e pittrice, artista a 360° e scrittrice, l’unica certa dei propri movimenti e del suono delle proprio parole mentre traghetta tutti nella sala.
Marta è la promotrice delle Cene al buio: un’esperienza sensoriale diversa, fatta di altri ‘sentire’ che non siano la vista; un esperimento sociale e un attraversamento nel nulla visivo per dare uno scorcio di ciò che si nasconde dietro gli occhi, oltre la superficie delle nostre iridi. L’invito è di mescolarsi tra i convitati per socializzare, conoscere gli sconosciuti.
Il buio proietta da subito le persone in chiacchiere simpatiche e collaborazioniste: “il pane è mio o tuo?”, “sono sicuro, è rosso al 100%”, “ops, non volevo sfiorarti la mano”.
-
Marta Telatin, come definiresti le tue “cene al buio”?
“Non sono eventi nati con l’obiettivo di “raccontare la cecità”.
Le mie cene al buio sono esperienze formative. Quel che a me interessa è che la persona esperisca, abiti gli altri sensi di cui siamo in possesso: gli altri quattro più il sesto senso con le sue sfumature. L’idea è di narrare gli altri sensi. La maggior parte delle cose che faccio – continua Marta – è perché ho avuto la vista fino ai 13 anni, quindi posso confrontare le diverse situazioni. La vista è usata troppo e dà informazioni fuorvianti; è la più immediata e diretta, è il senso più veloce in un’epoca dove tutti hanno fretta, a differenza dell’udito, per esempio, più legato all’emotività”.
Le Cene al buio sono soprattutto un gioco: di ruolo, dove ognuno si dà un tono attraverso la voce; di squadra, nell’indovinare quel che sta sul piatto, gli ingredienti sparsi tra antipasto, primo, secondo e dolce; una sfida al palato e ai nostri gusti, che pensano di assaporare ogni giorno ciò che mangiamo, e in realtà è una ricostruzione mentale, di volta in volta, di quel che sono le aspettative culinarie di ognuno, i desideri, le voglie. Nell’entusiasmo di indovinare cosa si sta mangiando la forchetta rimane appesa alle dita della mano destra, mentre la sinistra porta il cibo alla bocca: tanto nessuno può vedere tracce di tortellone sui palmi, sulle labbra.
-
Per te Marta esistono 23 sensi: ne puoi elencare alcuni e spiegare qual è il tuo preferito?
“Questi 23 sensi sono i cinque consueti più il sesto, composto da quelli che ho individuato essere altri 17 sotto-sensi; come se il sesto fosse un fiume e gli altri i suoi affluenti. Una metafora, per spiegare il sesto senso e le sfaccettature che i non vedenti possono cogliere. Alcuni di questi sono il senso dell’equilibrio, il senso della propriocezione, il senso della risata, il senso della creatività. I miei preferiti sono tre – racconta Marta – il senso della risata, della felicità e della meraviglia: la meraviglia cui gli adulti fanno fatica ad avvicinarsi. Sarebbe bello che le persone tornassero a meravigliarsi, a vedere la quotidianità con gli occhi di un bambino. Ci si meraviglia quando si diventa genitore, quando si ri-conosce attraverso gli occhi del figlio. Sarebbe utile provare ad alleggerire le tensioni che abbiamo sempre, cercando nelle giornate buie qualcosa di bello”.
Tra una portata e l’altra Marta intrattiene i commensali con un racconto, una condivisione, un invito: chiede a qualcuno di mostrare una propria dote (che porta a cantare Anche Fragile di Elisa, a cappella), recita una sua poesia, racconta la propria vita. Dall’infanzia, il conoscere della cecità imminente, il concretizzarsi del buio all’età di tredici anni, la difficile adolescenza a Cittadella – sola tra persone vedenti – e la rinascita padovana, dove vive e spande arte da vent’anni a questa parte: riversa nel mondo poesie e libri, collaborazioni musicali e riscoperte pittoriche, formazione alle persone e colori.
-
Durante la cena hai usato il verbo “vedere”. Cosa significa per te “vedere”?
“Per me “vedere” significa vedere (dice ridendo). Nel senso: io vedo, diversamente ma vedo. La visione va oltre. Secondo me la parola vedere è più profonda di guardare; non è solo superficie, scorrere con gli occhi sul mondo. Vedere è più una scoperta. ‘Non-vedere’ rientra poi in un vocabolario politicamente corretto fuorviante. Non troverai mai, per esempio, un non-vedente che dice “andiamo a sentire un film”; questo mi ricorda poi uno sketch di un noto programma, dove un comico cieco esclama ‘mica puoi amare non-vedentemente!’. I ciechi vedono, attraverso la memoria – fondamentale per un cieco – le voci, la posizione delle cose nel mondo”.
L’ultima cucchiata di dessert rintocca la fine della cena. Si scopre il menù, fatto di patate e cavolfiori, tortelli mantovani, tonno e cavolfiori, cheesecake e lamponi.
Marta invita il gruppo a coprirsi gli occhi, finché gradualmente non riconquistiamo la luce: prima le candele, poi i lampadari.
Con la vista ritorna anche un leggero imbarazzo, una piccola situazione di zona-non-confortevole: il buio sembra ora una coccola mancata.
Nel giro di poco gli avventori si sparpagliano, pagano, salutano e se ne vanno, finché non rimangono gli ultimi a salutare i gestori del ristorante, che cominciano le pulizie.
-
Che cos’è il buio? Qual è la sfortuna del non-vedente e qual è la sfortuna del vedente?
“Non parlerei di ‘sfortuna’. Quando a tre anni mi hanno detto che avrei perso la vista avevo paura del buio come tutti gli altri bambini. Ora, se mi dicessero che domani potrei recuperare la vista, direi ‘aspetta un attimo, ci penso’. Nel buio ho trovato un mio equilibrio, fa parte di me. La ‘sfortuna’ del vedente è di perdere l’occasione per cogliere ‘l’oltre’ in quel che c’è, in noi e nel mondo che ci circonda. Spesso si valuta in base a quel che vediamo. Il buio non è così pauroso, può nascondere colori.
Sono così piena di quello che faccio, nonostante i momenti tristi, che non ho questa mancanza di guardare il mondo”.
E nel pieno del mondo di Marta la cena termina, si esce nella notte, e si torna verso casa, pensando al buio e alle cene, ai sensi e ai colori, e alle parole.
Damiano Martin