Uno studio statunitense evidenzia gli impatti delle diverse fasi della maternità sull’età biologica
C’è un’età, quella anagrafica, che inevitabilmente non può che aumentare giorno dopo giorno. Ma quella classica non è l’unica “età” cui si fa riferimento in medicina e fisiologia.
Un diverso parametro, che alcuni studi hanno scoperto essere un predittore addirittura migliore rispetto al semplice conto numerico legato alla data di nascita per quanto concerne alcuni problemi di salute come malattie cardiovascolari e demenza, è la cosiddetta “età biologica”, registrata dall’“orologio epigenetico del corpo”.
Con questo concetto si intende l’età che si può attribuire a un individuo confrontando alcune sue condizioni morfologiche e funzionali, come la qualità di tessuti, organi ed apparati, con valori standard di riferimento. Al riguardo, risalgono al 2019 i primi studi che hanno suggerito la possibilità di invertire questo “orologio”.
Adesso, un nuovo studio appena pubblicato su Cell Metabolism da un gruppo di ricercatori delle università statunitensi Yale e Irvine, in collaborazione con studiosi tedeschi, ha approfondito il tema del collegamento dell’età biologica con la gravidanza, fino ai mesi successivi alla nascita del bambino. Con risultati che sottolineano, in tal senso, l’importanza del parto.
Più vecchie per 9 mesi, poi di nuovo giovani
La chiave dell’età biologica si lega al processo chimico che si verifica nel nostro dna sulla base del processo chiamato “metilazione”.
Attraverso questo processo, vengono aggiunti al patrimonio genetico dei marcatori chimici, chiamati gruppi metilici, che, pur senza modificarne il codice genetico, cambiano l’attività del dna.
A determinare l’aumento dell’età biologica dell’individuo è l’accumulo nel tempo di gruppi metilici nel dna, legato agli stress fisiologici.
Tra questi rientra indubbiamente la gravidanza: una fase della vita in cui si possono osservare nella gestante modelli epigenetici osservati nelle persone anziane e dunque considerati un segno distintivo dell’invecchiamento.
Come aveva evidenziato lo scorso anno uno studio sui topi di Vadim Gladyshev dell’Università di Harvard, l’età biologica “è un parametro fluido: può andare su e giù”.
E, nell’occasione, lo scienziato biomedico ha rilevato una diminuzione di questa età una volta conclusa la gravidanza, durante la quale aveva registrato un aumento tra 2 e 3 anni, così come al cessare di altre condizioni stressanti.
Il nuovo studio ha confermato negli esseri umani i risultati di Gladyshev: dopo il parto, i modelli chimici nella donna ritornano allo stato precedente.
Non si può ancora affermare, va detto, che il parto “ringiovanisca”, visto che l’età biologica delle partecipanti allo studio non era stata misurata prima dello stato di gravidanza. Ma, al tempo stesso, va escluso che quest’ultimo sia uno stato di accelerato invecchiamento permanente.
L’influenza di obesità e allattamento al seno
Secondo alcuni ricercatori, come riporta un articolo sul tema pubblicato da Nature, l’interpretazione di questi due studi non è semplice.
Una teoria sulla metilazione in gravidanza, sostenuta per esempio dalla specialista dell’Università di San Francisco Dena Dubal, è che non sia un segno dell’invecchiamento, ma possa essere alla base dei cambiamenti del corpo per sostenere un feto in crescita.
Vi sono poi altre due risultanze dello studio pubblicato su Cell Metabolism che andranno approfondite. La considerazione di fondo è che non tutte le mamme si riprendono dalla gravidanza alla stessa misura. Il recupero dell’età biologica, per esempio, è inferiore nei primi 3 mesi successivi al parto nelle donne che erano obese prima di rimanere incinte.
Ancora, la riduzione dell’età biologica è risultata maggiore nelle madri che allattavano esclusivamente al seno rispetto a quelle che hanno fatto ricorso, in tutto o in parte, al latte artificiale. “Anche se – conclude Dubal nell’intervista su Nature – pur essendo molti i benefici dell’allattamento al seno, la sua assenza non è una situazione pericolosa”.
Alberto Minazzi