A 61 anni di distanza, resta vivo il ricordo della tragedia del Vajont. Dal monte Tok a Legnano, la solidarietà accorcia le distanze
Distano circa 4 ore di macchina. Più o meno 385 km.
Ma sono unite da uno stretto filo di solidarietà. Quello che, a 61 anni di distanza, ha fatto sì che a Legnano, nel veronese, sorga il primo monumento dedicato alle vittime del Vajont.
Dopo il cimitero monumentale di Fortogna, a Longarone e i 487 cippi, tanti quanti sono i bambini che morirono il 9 ottobre 1963, la tragedia del Vajont avrà nei giardini di piazza Vittorio Veneto il suo monumento titolato “L’incantesimo della nostalgia”.
Un muro di calcestruzzo, lo stesso usato per la costruzione della più grande diga del mondo nel bellunese e i sassi originali del monte Toc, dal quale si è staccata allora la frana di 260 milioni di metri cubi di roccia piombati nel lago artificiale dietro la diga.
Il bacino conteneva in quel momento, erano le 22.39 del 9 ottobre 1963, 115 milioni di metri cubi d’acqua.
L’onda di 50 milioni di metri cubi che si è alzata passando dall’altra parte della diga, ha letteralmente spazzato via i paesi sottostanti (Longarone, Pirago, Corissago, Rivalta e Faè) e i loro abitanti.
Il monumento di Legnano sarà realizzato, su iniziativa di un albergatore della zona, Giuseppe Calini, grazie a una raccolta fondi cittadina. E vuole essere un segno di solidarietà e di vicinanza alle famiglie delle vittime.
In soli 4 minuti di apocalisse ben 1917.
Vajont: la più grande diga del mondo
La diga del Vajont, progettata dall’ingegnere Carlo Semenza e successivamente costruita tra il 1957 e il 1960 tra i paesi di Erto e Casso, era la risposta alla necessità di energia del Paese.
L’invaso doveva servire come grande serbatoio d’acqua entro il quale sarebbero confluite, attraverso 35 km di tubazioni scavate nelle montagne, le acque di tutte le altre centrali circostanti.
La gola stretta e profonda che il torrente Vajont si era scavato per arrivare al Piave era perfetta per costruire uno sbarramento artificiale e la Sade, la Società Adriatica di elettricità, fondata e di proprietà di Giuseppe Volpi, conte di Misurata (nonché ministro delle Finanze dell’allora Governo Mussolini e Primo Procuratore di San Marco, oltre che presidente della Biennale di Venezia e presidente di Confindustria) colse l’occasione di costruire quella che sarebbe diventata la più grande diga al mondo.
La variante in corso d’opera
Il progetto originario, che risale al 1940, prevedeva un’altezza di 200 metri e un volume d’acqua di 58 milioni di metri cubi.
Nel 1957, tuttavia, fu introdotta una variante in corso d’opera che portava la diga a misurare 261 metri e ad aumentare il volume d’acqua a 150 milioni di metri cubi. Giorgio Dal Piaz, il geologo incaricato di verificare la fattibilità dell’opera secondo i nuovi parametri, attestò la stabilità delle montagne circostanti e la variante fu approvata dal Ministero.
Come sappiamo, non andò tutto come avrebbe dovuto.
I timori inascoltati
Già durante il periodo del primo invaso dell’acqua, nel 1959, si verificano alcune frane ritenute non importanti. E successivamente si riscontrò una frattura nella roccia cui nessuno diede molta rilevanza.
Ma tra la popolazione, fatta per lo più di contadini e allevatori che ben conoscevano il proprio territorio, per quell’opera avveniristica iniziava a sorgere, sempre più forte, il timore.
Fu colto da Tina Merlin, all’epoca giornalista de L’Unità, che, a proposito di questi eventi, scriveva:
“Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l’esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli”.
Voci e moniti inascoltati. Nell’ottobre 1961 la diga venne infatti inaugurata.