Lo psicologo: “Il sistema è pensato per gli adulti, non per i ragazzi, e l’istituzione perde credibilità”
Le cifre ufficiali sull’abbandono scolastico in Italia sono cristallizzate a prima della pandemia, perché, dopo l’ultima pubblicazione basata su dati del 2019, il Ministero non ha più aggiornato il quadro globale. E sebbene alcuni dati parziali usciti successivamente sembrino dire che ci sia un inizio di inversione di tendenza, più parti in causa, sulla base della propria esperienza diretta, evidenziano al contrario che il fenomeno è ancora in crescita.
Per di più, pur essendo un problema già noto, la dispersione scolastica di recente si è evoluta, pur mantenendo una decisa connotazione di genere (riguarda ancora in prevalenza i maschi) e territoriale (è ancora più diffusa al Sud), ma coinvolgendo per esempio, a differenza del passato, anche giovani provenienti da contesti sociali tutt’altro che disagiati.
Considerazioni che, per molti, dovrebbero portare a un profondo ripensamento dell’intero sistema scolastico, ormai non più adeguato a una società molto cambiata.
Tra chi, analizzando il fenomeno, punta il dito sul modello di scuola italiana c’è per esempio Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano Bicocca e presso la facoltà di Scienze della formazione della Cattolica di Milano, oltre che presidente della Fondazione Minotauro, che ha approfondito queste tematiche nel libro “Sii te stesso a modo mio”.
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Dottor Lancini, il concetto da cui muovono le sue riflessioni si può riassumere in una sola parola: “identificazione”. Cosa intende dire?
“L’abbandono scolastico è un fenomeno molto complesso, che interessa da molto tempo la società. Negli ultimi anni, però, si è modificato, mischiandosi per esempio ad altri temi, come quello dei neet, cioè i giovani che non studiano o non lavorano, o il ritiro sociale maschile. E tra le varie questioni da mettere al centro in questo momento c’è anche quella della fragilità adulta, di cui parlo nel mio libro. Mi riferisco al fatto che la società propone modelli familiari e scolastici che non tengono in considerazione cosa significa essere un bambino o un adolescente. Ed è da qui che parte la mancata identificazione delle nuove generazioni con le istituzioni, di cui percepiscono come non siano in grado di dare risposte ai loro bisogni attuali e futuri”.
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Come incide tutto questo con la dispersione scolastica?
“Questa problematica non riguarda più solo alcune zone caratterizzate da deprivazioni economiche e sociali, anche perché ormai, negli ultimi anni, la scolarizzazione di massa è aumentata ovunque. Ma, lavorando col mondo della scuola ormai da 31 anni, posso dire di aver notato che l’Europa si muove in maniera diversa dall’Italia, che così scala posizioni, in negativo, nella classifica dell’abbandono scolastico. Il problema, dunque, secondo me è in aumento. E il tutto nasce dal fatto che il Ministero dell’Istruzione non si rivolge ai ragazzi, ma ai suoi 1,2 milioni di dipendenti, di cui 800 mila insegnanti. Cioè, la scuola non è organizzata per i 18enni, ma per sopravvivere alle necessità degli adulti. È ormai un sistema autoreferenziale”.
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Come dovrebbe invece essere una scuola “per i ragazzi”?
“Il sentire comune è quello di arrivare a una scuola senza materie, perché le singole discipline non hanno significato: il sapere per l’essere umano non è fatto di singoli scompartimenti, con le suddivisioni ancora in vigore che risalgono all’inizio della scolarizzazione. In secondo luogo, bisogna superare l’idea di usare i numeri come voti, che serve solo ai docenti. Il vero problema è che l’apprendimento non interessa più, ma si guarda solo ai programmi e ai numeri. C’è, per esempio, un inizio di riforma degli istituti professionali, ancora del 2017, in cui il Ministero chiede di non bocciare, almeno per il primo anno. Ma nessuno ascolta questa indicazione. Terzo, bisogna collegare in internet tutte le scuole di secondo grado, che ormai sono le uniche a non avere questa connessione. È incredibile, per esempio, che l’esame di maturità non possa essere fatto al computer. La scuola viene invece vista solo come un mezzo di contrasto a una società iperconnessa”.
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Come si traduce in abbandono scolastico tutto questo?
“Non dobbiamo tralasciare anche l’impatto della pandemia, che ha cambiato ulteriormente i punti di riferimento. Quel che sta accadendo è che i ragazzi si convincono di come sia meglio stare a casa, perché è più utile stare sempre in internet. Ormai gli spazi di socializzazione sono stati chiusi e, se non va a scuola, un adolescente sta tutto il giorno nell’unico luogo che può risultare peggiore per la sua crescita: lo stretto ambito familiare. È per questo che affermo che è necessario difendere la scuola, evitando che perda di credibilità come istituzione. La scuola altrimenti rischia di diventare semplicemente un luogo dove vai e perde ogni suo compito legato all’apprendimento, oltre che luogo migliore dove crescere. Ma per ottenere questo, bisogna focalizzarsi sui bisogni della società, cosa che finora non ha fatto nessuno. Andiamo invece avanti con aziende e società sportive che propongono sempre più un’offerta formativa che non spetterebbe a loro. Considerando anche la denatalità, si rischia di arrivare al punto in cui ci saranno più insegnanti che scolari”.
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Le problematiche della scuola sono insomma la punta dell’iceberg di un processo più ampio?
“Ho 58 anni e quando ero giovane nessuno immaginava per esempio che le caserme sarebbero state chiuse per “mancanza di clienti”. Oppure, fino a qualche anno fa, Christian Dior dettava legge nell’ambito della moda, ma oggi non venderebbe nemmeno un profumo se non ci fosse Chiara Ferragni a suggerirlo. Quella stessa Ferragni che, al tempo stesso, è testimonial della Segre, sale con un vestito che riproduce la sua nudità sul palco a Sanremo e rappresenta la lotta per le donne. Con poi suo marito, Fedez, che dopo un’operazione di tumore, cosa che ai miei tempi si sarebbe tenuta ben nascosta, ricevendo il ringraziamento dei medici perché grazie al suo messaggio contribuisce a diffondere la consapevolezza nei confronti della malattia. E lo stesso Fedez, insieme a Belen, viene scelto per pubblicizzare il bonus psicologo… Intanto, però, si dice che i ragazzi non devono portare il telefonino a scuola: c’è una dissociazione con la società adulta, che mostra una fragilità senza precedenti. Va dunque aumentato il potere educativo dei soggetti deputati specificamente a questa funzione, che altrimenti viene svolta dai coetanei e da internet”.
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Ma c’è qualche punto positivo da cui partire per questo cambiamento?
“Assolutamente sì. I ragazzi odierni sono esperti di relazioni molto più di quelli che li hanno preceduti. Quando trovano un insegnante con cui si identificano, gli si affidano come nessuno della mia generazione avrebbe mai pensato di fare, gli raccontano un mucchio di cose, vivono come un’occasione persino l’andare dal preside. Un cambiamento enorme, all’interno del quale va trovata e proposta la dimensione giusta per offrire qualcosa di davvero utile per i nostri ragazzi. Gli adulti che gestiscono i giovani non sono cattivi, ma oggi sono troppo fragili per svolgere questa funzione, hanno difficoltà a organizzare i rapporti con il giusto grado di rigore e autorevolezza. È un tema dell’intera società, visto che anche le famiglie ascoltano molto di più i figli. Però, al tempo stesso, non riescono a sentirne i dolori e le fragilità. Dei conflitti interni dei giovani non interessa a nessuno. E così la dispersione scolastica si sovrappone al ritiro sociale, alle distorsioni alimentari, ai tentati suicidi. Ma proprio le caratteristiche delle nuove generazioni potrebbero consentire di costruire esperienze straordinariamente innovative”.
Alberto Minazzi
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