Individuata una nuova tipologia di cellule che giocano un ruolo cruciale in apprendimento, memoria e movimento
Proprio nel 12° mese mondiale dell’Alzheimer, a pochi giorni dalla 30° giornata mondiale del 21 settembre dedicata alla principale forma di demenza, arriva dalla ricerca una nuova speranza per una futura cura delle principali malattie neurodegenerative.
Uno studio internazionale pubblicato su Nature, che ha coinvolto realtà italiane tra cui l’Università di Roma Tor Vergata, ha scoperto la presenza nel nostro cervello di un terzo tipo di cellule, fin qui sconosciute, chiamate astrociti glutammatergici, che mettono insieme le caratteristiche dei neuroni e delle strutture cerebrali di supporto.
Grazie a quello che i ricercatori hanno definito “un notevole avanzamento della conoscenza dei meccanismi di funzionamento del nostro cervello”, si apre così una possibile nuova strada per sviluppare terapie da poter mettere in campo nel decorso di varie malattie cerebrali.
Alla scoperta del mistero del cervello
La “macchina perfetta” del nostro cervello è ancor oggi in gran parte sconosciuta.
“C’è ancora tantissimo da scoprire – conferma Ada Ledonne, ricercatrice di farmacologia del dipartimento di Medicina dei sistemi dell’Università di Roma Tor Vergata e seconda autrice dello studio basato sul lavoro diretto dal professore emerito dell’Università di Losanna Andrea Volterra – e lo studio del cervello è uno dei principali obiettivi dei ricercatori. Quello che abbiamo scoperto ora è solo la punta dell’iceberg”.
Anche quel che finora è dato per acquisito, dunque, può essere messo in dubbio. Ciò che, in sostanza, è avvenuto con la nuova scoperta.
“Da tempo – spiega Ledonne – è noto che nel cervello ci sono neuroni e cellule gliali (che compongono la struttura di supporto, ndr). La teoria della netta distinzione tra i due tipi di cellule è però diventata controversa. E noi abbiamo definitivamente confermato la labilità di questa distinzione, perché gli astrociti (le cellule del glia, ndr) non sono omologhi come composizione, ma ve ne sono vari tipi. E alcuni hanno anche una caratteristica tipicamente neuronale”.
Queste cellule sono gli astrociti glutammatergici, al centro della scoperta. “Esprimono – illustra la ricercatrice di Tor Vergata – proteine che mediano il rilascio dei neurotrasmettitori, in particolare del glutammato, la cui funzione eccitatoria è tra le più conosciute”.
In altri termini, queste cellule giovano un ruolo fondamentale nella trasmissione chimica del segnale tra neuroni, che avviene nel loro punto di congiunzione, rappresentato dalle sinapsi.
La comunicazione tra neuroni e le possibilità di nuove cure
Per testare l’ipotesi del ruolo degli astrociti nei processi di memoria e apprendimento, dopo aver individuato le proteine coinvolte nella funzione di rilascio i ricercatori hanno modificato nel cervello di un topo il circuito del neurotrasmettitori.
“La plasticità sinaptica e il potenziamento a lungo termine nell’ippocampo – riprende Ledonne – sono un meccanismo importante per apprendimento e memoria. Un processo che, abbiamo riscontrato, intervenendo sugli astrociti e non avendo così più il rilascio del trasmettitore, risulta ridotto e incide negativamente sulla memoria”.
Quanto alla funzione svolta dagli astrociti riguardo al movimento, gli studiosi si sono concentrati su un altro circuito: quello dopaminergico nigrostriatale, che è essenziale nel controllo dei movimenti e, non a caso, quando degenera porta al Parkinson.
Anche in questo caso è stata alterata la proteina specifica e nuovamente si è riscontrata una conseguente alterazione anche della neurotrasmissione, con l’aumento della comunicazione tra neuroni.
“Su questi circuiti – sottolinea – si può intervenire chimicamente, sopperendo alla mancanza del contributo di determinate proteine anche attraverso farmaci innovativi”.
“Per il Parkinson – prosegue la ricercatrice di Tor Vergata – noi proponiamo di puntare sul primo passaggio, quello dei recettori del glutammato, per cercare riuscire a trovare terapie di contrasto alla patologia che sono allo studio, ma ancora mancano. Quanto all’Alzheimer, da poco è stata approvato un primo anticorpo monoclonale che interagisce sulla caratteristica patologica principale, ma siamo solo all’inizio. Anche il professor Volterra sta proseguendo negli studi per approfondire i possibili legami degli astrociti all’Alzheimer, dopo averne riscontrato la presenza nell’ippocampo e il ruolo nella memoria: la speranza è di avere prossimamente delle novità. Intanto, si è aperta una strada”.
La demenza di Alzheimer
L’Istituto Superiore di Sanità ricorda che le demenze (come quelle vascolare, frontotemporale o a corpi di Lewy) comprendono un insieme di patologie non guaribili con un impatto in termini socio-sanitari considerevole e in continua crescita con il progressivo invecchiamento della popolazione. Tra queste, la demenza di Alzheimer è la principale.
Si stima che, in Europa, rappresenti il 54% di tutte le demenze, con una prevalenza del 4,4% nella popolazione over 65.
La prevalenza aumenta con il crescere dell’età. Per le donne, che risultano percentualmente più colpite, si passa dallo 0,7% tra 65 e 69 anni al 23,6% tra le ultranovantenni.
Tra i maschi le quote sono rispettivamente dello 0,6% e del 17,6%.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che le demenze interessino oltre 55 milioni di persone al mondo. E le complicanze della malattia sono la 7^ causa di morte al mondo e la 3^ in Europa occidentale tra chi ha più di 65 anni.
Il Ministero della Salute evidenzia che si prevede che nel mondo saranno colpite da demenza 75 milioni di persone entro il 2030 e 132 milioni entro il 2050, con circa 10 milioni di nuovi casi all’anno (1 ogni 3 secondi) e costi stimati in più di un trilione di dollari l’anno.
Attualmente il numero totale dei pazienti italiani con demenza è stimato in oltre 1 milione, di cui circa 600 mila con demenza di Alzheimer. Circa 3 milioni di persone sono coinvolti nell’assistenza.
Il morbo di Parkinson
La seconda malattia neurodegerativa progressiva più diffusa, nel mondo come in Italia, è il morbo di Parkinson, al quale sono dedicati una giornata mondiale (dal 1997, l’11 aprile, data di nascita dell’omonimo medico inglese che nel 1817 descrisse la “paralisi agitante”) e una nazionale (il 25 novembre).
Si stima che in tutto il pianeta ne siano affetti circa 6,5 milioni di persone, ma, secondo il Journal of Parkinson’s Desease si potrebbe arrivare a 12 milioni già nel 2040.
Nell’Unione Europea, i casi sono circa 1,2 milioni e in Italia tra 250 e 300 mila, con circa 6 mila nuovi casi ogni anno nel nostro Paese.
In genere, il Parkinson, malattia correlata con l’invecchiamento, inizia a presentarsi tra i 50 e i 60 anni, anche se un quarto di malati ha meno di 50 anni e 1 su 10 addirittura meno di 40. Del resto, a oggi, non è noto alla scienza il motivo per cui si sviluppa la malattia, anche se molti esperti ipotizzano un’interazione tra fattori ambientali e genetici.
Tra i sintomi più comuni i ‘tremori a riposo’, un visibile rallentamento dei movimenti, una rigidità nell’espressione facciale e disturbi nella deambulazione. Possibili anche problemi legati al sistema nervoso: dalle difficoltà cognitive a ansia e depressione.
Quanto alle attuali cure, sono disponibili buone terapie sintomatiche, mentre, tra le terapie allo studio, va ricordata quella che punta su anticorpi monoclonali per ritardare o bloccare la progressione della malattia.
Alberto Minazzi