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Gli schiavi di Pompei: ecco come vivevano

Gli schiavi di Pompei: ecco come vivevano
Pompei (Napoli)

Nella villa romana di Civita Giuliana è stato ritrovato l’arredo di una stanza che riconduce a una precisa gerarchia

Non finiscono di stupire e di affascinare gli scavi in corso a Pompei. Già una prima stanza degli schiavi fu scoperta nel novembre del 2021.
Questa volta i lavori hanno permesso di portare alla luce nella villa romana di Civita Giuliana, a circa 600 metri dalle mura dell’antica città, l’arredo di un’altra che ha permesso agli studiosi di ricostruire la vita degli schiavi. Quanto rinvenuto ha soprattutto consentito di pensare a una precisa gerarchia anche tra la servitù. Un’immagine che riporta a quasi duemila anni fa e che è stato possibile realizzare grazie alla tecnica dei calchi.

La nuova scoperta

La nuova stanza, denominata “ambiente a” si presenta diversa da quella precedentemente scoperta, “ambiente c”.
Come le altre stanze ha una porta d’ingresso spostata a sud, priva di tracce di intonaco che ricopra le pareti.
La trama larga della rete in corda del letto è perfettamente conservata dal calco in gesso così come la coperta lasciata disordinata sul letto.
Come gli altri letti di questo tipo rinvenuti nel 2021 non sembra ci fosse il materasso.

Un altro letto invece è di un tipo più confortevole e costoso, noto in italiano come letto a spalliera. Almeno due dei fianchi lignei caratteristici di questa tipologia sono riconoscibili grazie alla macchia lasciata sul frassino dai contorni dipinti di rosso. Un particolare significativo che fa pensare che questo letto potrebbe essere appartenuto a un servitore in una posizione alquanto elevata, forse una specie di sorvegliante. A questi schiavi venivano spesso concessi privilegi al fine di renderli alleati affidabili del padrone, ad esempio consentendo loro di vivere con una schiava in un matrimonio di fatto.

 

Nell’ambiente recentemente scavato, sopra il letto sulla parete ovest sono stati trovati i resti, legno carbonizzato, di una grande mensola a forma di L e un grande cesto di vimini al centro della stanza. Al suo interno vi erano due cesti più piccoli, tutti conservati come calchi in gesso.
Sullo scaffale che circondava la stanza vi erano tazze, piatti e vari altri pezzi di stoviglie, anfore e vasi in ceramica. Nello spazio anche diversi attrezzi, tra i quali una zappa di ferro e due piccoli armadi.

Gli ultimi della società dell’epoca

Il microscavo di vasi e anfore provenienti dall’”ambiente c” ha intanto rilevato la presenza di almeno tre roditori: due in un’anfora e uno in una brocca, posizionata sotto uno dei letti e dalla quale sembra cercasse di scappare.
Dettagli che ancora una volta sottolineano le condizioni di precarietà in cui vivevano gli ultimi della società dell’epoca.
L’esplorazione della villa romana di Civita Giuliana, che già fu oggetto di scavi nel 1907-’08, iniziò nel 2017 in base a una collaborazione tra il Parco Archeologico di Pompei e la Procura della Repubblica di Torre Annunziata che insieme ai Carabinieri aveva scoperto nell’area della villa un’annosa attività di scavi clandestini successivamente sgominata e perseguita sia penalmente che civilmente.

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«Siamo impegnati a continuare le ricerche e progettare la fruizione del luogo che, come nessun altro del mondo antico  – ha sottolineato il direttore del Parco Archeologico di Pompei Gabriel Zuchtriegel –racconta la quotidianità degli ultimi. In occasione della riapertura dell’Antiquarium di Boscoreale, il prossimo autunno, prevediamo una sala per informare il pubblico sugli scavi in corso».

La tecnica dei calchi

La tecnica dei calchi, che ha permesso di ricostruire questa parte della storia si mette in pratica solo a Pompei ed è stata inventata negli anni Sessanta dell’Ottocento dall’archeologo italiano Giuseppe Fiorelli. Sostanzialmente immutata fino ad oggi, consiste nel riempire con una miscela di gesso i vuoti che un tempo erano occupati dai corpi delle vittime dell’eruzione del 79 d.C.
Pompei fu sommersa da lapilli, pomici e cenere nascosero in una coltre nera edifici, uomini, animali e oggetti. Nel corso dei secoli si erano formati dei vuoti: i corpi dei defunti si erano decomposti, ma la loro impronta si era mantenuta impressa nella cenere.

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Solo all’inizio del XIX si comprese quanto questi “vuoti” potessero ancora raccontare al mondo. Perché i calchi che si potevano produrre rivelavano molto di quando accadde. Una tecnica, preziosa ancora ai tempi odierni, che ha permesso di recuperare i calchi di oltre cento vittime.

Silvia Bolognini

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