Il trono è vuoto. Per ora. La Serie A di basket dopo diversi anni non ha un padrone. Non lo è Siena, che ha cambiato moltissimo e avrà bisogno di tempo per capire la sua esatta dimensione. Non lo è Milano, alle prese con una “grandeur” che non riesce a gestire. Non lo è ancora Cantù, che a sua volta ha cambiato molto, ma conserva uno spirito indomabile e un’etica di gioco tetragona ai mutamenti. Ma se il trono è vuoto, il treno del campionato non lo è, e corre a ritmo sostenuto. Nel varco infatti si sono infilate Varese e Sassari, accomunate dalla propensione a segnare e divertire, mentre nella pancia della classifica succede tutto e il contrario di tutto. Merito anche del nuovo regolamento sugli stranieri, che ha dato la possibilità a molte società di allestire roster mediamente competitivi, compensando gli effetti della crisi e le tante partenze eccellenti che hanno ridimensionato il valore tecnico del torneo (ci riferiamo ai vari McCalleb, Andersen, Lavrinovic, Micov, White, Koponen). Equilibrio però non sempre fa rima con divertimento e a rendere attraente il cielo di un campionato sono soprattutto le stelle che lo popolano.
Non bisogna poi dimenticare che oltre alle novità sui tesseramenti degli stranieri, ci si sta avviando verso una radicale riforma dei campionati che prenderà il via dalla stagione 2013-2014 e che cambierà il vertice del movimento. In cima alla piramide ci sarà una Serie A sempre più “elitaria”, subito dietro i campionati “Gold” e “Silver”, che avranno l’obiettivo di formare gli italiani per l’alto livello. In uno scenario così incerto potrebbe uscire la sorpresa. Come lo fu Caserta nel ’91, chiudendo di fatto il ciclo della “Milano da bere” degli anni Ottanta. Come lo fu la Varese delle stella, che si mise alle spalle la Virtus che aveva dominato gli anni Novanta. Al momento una sola cosa è certa ed è l’incertezza. Oltre al fatto di essere di fronte ad un anno di transizione. «È una stagione spartiacque – è l’opinione di Federico Casarin, direttore sportivo dell’ Umana Reyer premiato lo scorso anno come miglior dirigente in Serie A – sia perché il numero delle società si è ridotto a sedici con una sola retrocessione, sia perché si va verso un campionato di élite nel vero senso della parola. Cambia il modo di programmare, la Serie A si avvia a diventare l’unico riferimento professionistico del movimento e bisogna essere preparati per questo».
Qualche indicazione il campionato finora l’ha data, ma alla lunga le squadre di Eurolega, forgiate da una competizione sempre più dura, è probabile vengano fuori. «Non sono affatto sicuro del ridimensionamento di Siena. È finito un ciclo, quello senz’altro. Ma non è finita Siena come società. Forse in questo momento hanno una squadra più abbordabile, ma per tutto il resto rimane un esempio. Sia come mentalità, sia come organizzazione societaria». Sull’incertezza che regna sovrana, Casarin la pensa così. «L’equilibro è sotto gli occhi di tutti. È un torneo indecifrabile. In questa prima fase, se esistesse il pareggio, ogni partita sarebbe da tripla. È la bellezza di non avere una favorita certa e di sorprese ce ne potrebbero essere molte strada facendo. In ogni caso resto convinto che Milano tornerà protagonista, rimane la squadra più completa. Siena è sempre Siena e anche Cantù è destinata a fare bene. Le tre di Eurolega rimangono un gradino sopra le altre. Anche se subito dietro bisogna mettere Varese, che sta facendo benissimo ed è diventata una squadra di prima fascia».
A rendere tutto più incerto ci ha pensato il nuovo regolamento sui tesseramenti, che ha aumentato il numero degli stranieri. Non sono arrivati dei “crack”, ma il valore medio ha permesso di rendere il torneo più aperto. «Il nuovo mercato ha aiutato in questa direzione – continua Casarin – sappiamo come negli ultimi anni un giocatore italiano costasse mediamente di più di uno straniero, per il quale esiste un mercato molto più vasto che ne livella il costo. Con la possibilità di avere sette stranieri, molti hanno potuto costruire formazioni di buona qualità senza spendere cifre esorbitanti. Noi abbiamo scelto questa soluzione partendo dal presupposto che potevamo contare già su tre italiani di valore e affidabili come Fantoni, Rosselli e Magro. A quel punto abbiamo puntato su una squadra lunga. Poi abbiamo avuto due occasioni particolari a disposizione, con Marconato e Bulleri. E grazie alla disponibilità del presidente Brugnaro le abbiamo sfruttate, complici anche i problemi di infortuni in fase di preparazione».
Altra novità da non sottovalutare è anche l’introduzione delle serie playoff al meglio delle sette partite, che in un certo modo impone, a chi punta alla seconda fase, di contare su panchine molto lunghe. Una scelta che ha fatto discutere e che effettivamente appare sovradimensionata rispetto alla realtà del campionato italiano. «Abbiamo costruito una squadra cercando di essere positivi e guardando con un occhio ai playoff. Ma senza mai dimenticare che prima di tutto bisogna guadagnarsi la permanenza in Serie A e poi guardare in alto. Rispetto all’anno scorso abbiamo più attaccanti, più giocatori che possono andare a canestro. Il dato oggettivo è che in fase di preparazione non abbiamo potuto lavorare insieme come volevamo». A proposito di attaccanti, il campionato ha lanciato qualche segnale di una riscoperta del gioco offensivo. La media punti segnati, di poco, ma si è alzata. Le due capoliste, almeno fino alle prime sette giornate, non erano le squadre più efficaci in difesa, ma più prolifiche in attacco (oltre 80 punti di media). La stessa Reyer, specialmente nella trasferta di Milano, è risultata più produttiva quando l’attacco si è sbloccato che non quando la difesa ha stretto le maglie. «A volte gli attacchi si dimostrano più bravi delle difese, A Milano abbiamo visto il talento prevalere sulla tattica. Alcuni canestri sono stati segnati letteralmente con le mani in faccia. Possiamo dire che rispetto all’anno passato, con una maggior numero di stranieri, si è alzata la velocità d’esecuzione, c’è maggiore rapidità nel gioco. Tuttavia la mia impressione è che quando ci avvicineremo ai playoff, e la posta in palio diventerà più alta, i punteggi tenderanno inevitabilmente ad abbassarsi».
Non solo nuove regole sugli stranieri. Non solo la riforma dei campionati. Bisogna ricordare che è iniziato un nuovo quadriennio olimpico, che per tutti gli sport che non sono il calcio significa tracciare le linee programmatiche delle discipline nei quattro anni a seguire. E la pallacanestro è sport olimpico per eccellenza e l’Italia dalle Olimpiadi manca da troppo tempo. Per questo il cambio della guardia tra Meneghin e il presidente “in pectore” Petrucci risulta particolarmente delicato per gli equilibri della pallacanestro nostrana. «Intanto bisogna salutare e ringraziare Meneghin per il lavoro fatto, in un momento difficile per la nostra pallacanestro – sottolinea Casarin – siamo felici del ritorno di Petrucci, che ci dà la certezza di essere guidati da una persona molto capace. La pallacanestro rimane pur sempre il secondo sport nazionale. Quello che chiediamo come Reyer alla federazione è di farsi valere e battere i pugni, se necessario, per riaffermare questa realtà di seconda disciplina italiana. Bisogna assolutamente aumentare la nostra visibilità e tornare ad essere considerati per quello che siamo. Le società sono ormai delle aziende, che devono avere delle certezze per assicurare un ritorno ai propri investitori, che sono gli sponsor. Non solo sulla carta stampata, ma a livello mediatico globale».
Dopo la partita tra campionati nazionali ed Eurolega, con quest’ultima a ritagliarsi spazi sempre più ampi nel calendario, si è aperto un nuovo fronte. La proposta della FIBA di portare a quattro anni la cadenza degli Europei con qualificazioni da disputare durante la stagione dei campionati non si annuncia indolore. Il nodo Nazionale-campionati tornerà presto di attualità. «Va dato risalto alla Nazionale, non si sono dubbi, anche perché rimane il principale veicolo per il movimento. Ma non bisogna dimenticarsi dei club. Se i club hanno un ritorno, hanno anche la possibilità di investire per formare i ragazzi, farli giocare e quindi produrre giocatori per l’alto livello. Se questo non avviene non si possono nemmeno assicurare quei giocatori necessari alla Nazionale per primeggiare sullo scenario internazionale».
DI ALESSANDRO TOMASUTTI