“Risi e bisi”: così risponderebbe un veneziano se gli chiedessimo qual è il piatto più famoso e rappresentativo di Venezia.
Veniva servito al Doge in occasione del banchetto del 25 aprile, festa del patrono di San Marco.
Soltanto all’apparenza è una ricetta semplice e non immaginate quanta storia e quante curiosità ruotino attorno a questa delizioso piatto che annuncia la primavera.
Le pregiate coltivazioni degli orti lagunari
Erano gli orti di Mazzorbo, delle Vignole, di Sant’Erasmo e di Cavallino a garantire una straordinaria produzione di ortaggi e legumi alla Serenissima.
Capitava, tuttavia, che a fine aprile i piselli non fossero ancora pronti e così, per garantire il banchetto dogale, la città attingeva dai suoi possedimenti nell’entroterra.
Sulle tavole venivano serviti allora i teneri bacelli verdi di Baone (Padova), di Lumignano (Vicenza), di Borso del Grappa (Treviso) e di Peseggia di Scorzè.
Ma Venezia, pur di soddisfare il suo Doge, si spingeva anche più in là, addirittura fino alla riviera ligure, come testimonia il poeta veneziano Antonio Maria Lamberti (lo stesso che ha scritto il testo della Biondina in Gondoleta). Nelle sue Memorie, opera storica del 1828, scriveva così : “Tutti i conviti del Doge erano serviti con la maggior squisitezza e per la maestria dei cuochi e per la squisitezza delle vivande… Pel giorno di San Marco procuravano i piselli a Genova non trovandosene negli orti dell’Estuario”.
Il riso a Venezia
Di origine asiatica, il riso arrivò a Venezia intorno al 1400 a bordo delle navi mercantili. Era talmente costoso che veniva venduto a chicchi.
All’inizio si usava come medicamento.
Lo si trovava infatti nei negozi degli speziali insieme a medicine, erbe e spezie.
Col passare degli anni, il riso entrò nelle cucine, ma soltanto in quelle dei ricchi, gli unici che potevano permettersi di acquistare una merce così costosa i cui chicchi venivano ridotti in polvere per addensare le minestre.
Una delibera del Consiglio dei Dieci del 1527 informava il popolo che “il riso supplisce molto bene i legumi”. Per stimolarne il consumo, e di conseguenza la produzione, per alcuni anni non impose alcuna tassa.
Fu così che il prezioso cereale conobbe quella che oggi chiamiamo diffusione di massa.
La coltivazione cominciò a diffondersi e nel giro di alcuni decenni le risaie disegnarono il paesaggio dello Stato da Tera della Dominante: Delta del Po e Polesine, Bassa Veronese, Trevigiano, area del medio Brenta vicino a Padova, e addirittura nelle aree lagunari.
Risi e bisi magnar da Doge
Il 25 aprile di ogni anno, giorno di San Marco, a Palazzo Ducale si svolgeva uno dei quattro solenni banchetti annuali. Il cerimoniale prevedeva come portata principale i risi e bisi, che venivano serviti al Serenissimo Doge e, a seguire, alle altre personalità invitate: i Procuratori di San Marco, i patrizi del Maggior Consiglio, gli alti prelati e i diplomatici stranieri.
Ed ecco spiegato il detto “risi e Bisi, magnar da Doge”: un piatto bene augurante poiché abbinava il riso, in Oriente simbolo di fertilità, ai piselli, tenere primizie primaverili simbolo di rinascita.
“Ogni riso un biso”
Il piatto era talmente amato dai Dogi, e dall’aristocrazia tutta, che pare che per ogni riso venisse richiesto un biso. Nell’Archivio di Stato dei Frari sono conservati i “fogli” che descrivono i banchetti ufficiali risalenti al XVIII secolo.
Per San Marco si menzionano ventisei “scudelle” d’argento: 13 di riso e 13 di “bisi col persutto” (piselli col prosciutto). Nulla si dice della cottura e ciò fa supporre che gli ospiti mescolassero i contenuti delle due scodelle a ingredienti già cotti. Al pari di altre ricette, anche i risi e bisi quasi certamente sono frutto della contaminazione dei commerci con Bisanzio, la cui tradizione culinaria era solita accompagnare il riso con le verdure.
Risi e bisi, tra poesia e teatro
La pietanza dei risi e bisi entrò anche nelle rime di Domenico Varagnolo, poeta veneziano del ‘900, che così scriveva “Per benedir la santa primavera che fa dei orti tanti paradisi, a mi me basta solo una supièra, na supièra dei nostri risi e bisi”. Prima di lui Carlo Goldoni, che nel 1762 dedicò ai risi e bisi alcuni versi in un dialogo del Sior Todero Brontolon con il suo servitore.
Facile a dirsi…
Visti i pochi ingredienti si potrebbe pensare che la preparazione dei risi e bisi sia abbastanza semplice. Niente di più sbagliato, la ricetta originale prevede una consistenza che Carlo Cracco ha descritto così “È un piatto brodoso ma non liquido, è cremoso ma non è un risotto”.
Nel 2013 la ricetta storica è stata recuperata grazie a una ricerca della Pro loco di Scorzè ed è stata depositata alla Camera di commercio di Venezia da parte dell’Accademia italiana della cucina di Venezia-Mestre.
La ricetta storica depositata
500 gr. di piselli sgranati
500 gr. riso vialone nano
2 cipolle bianche fresche
5 cucchiai d’olio d’oliva
1 cucchiaio di prezzemolo tritato
50 gr. di burro
5 cucchiai di parmigiano grattugiato
brodo sale e pepe quanto basta.
Preparazione: si prepara, preferibilmente il giorno prima, un brodo di pollo con sedano, carote, cipolla, uno spicchio d’aglio, poco sale.
In una casseruola si mettono i 5 cucchiai d’olio d’oliva, i piselli sgranati, le cipolle bianche fresche tagliate a pezzetti sottili, il prezzemolo tritato, mezzo bicchiere d’acqua.
Si cucina il tutto per 10-15 minuti finché l’acqua non sarà assorbita. Si aggiungono sale e il riso; si continua la cottura versando un po’ alla volta il brodo necessario. A fine cottura, con il riso al dente, si spegne il fuoco, si manteca con il burro, il parmigiano grattugiato, il pepe appena macinato; il brodo va aggiunto quanto serve perché risulti morbidamente all’onda, cioè appena brodoso da muoversi morbido quando si mette sul piatto.
I risi e bisi di “Patty Chef“
Una ricetta rivisitata del celeberrimo piatto è invece quella proposta dalla veneziana Patrizia Delponte, nota come “Patty Chef” in quanto vincitrice dell’ ottava edizione di “Cuochi d’ Italia” di Alessandro Borghese.